La lettera a Filemone

 LA  LETTERA  A  FILEMONE

  

Perché Paolo scriveva

 

       Paolo usò della parola viva, come forse nessun altro apostolo. Luca negli Atti lo rappresenta come un instancabile predicatore nelle sinagoghe giudaiche, nelle assemblee cristiane, davanti ai dotti dell'Areopago, in presenza delle autorità romane e perfino davanti ai re, come Erode Agrippa. Prima di dare il seguente consiglio al discepolo Timoteo (2 Timoteo 4:2), l'aveva praticato bene egli stesso e continuò a praticarlo, pur trovandosi in carcere: Predica la Parola [di Dio], insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole; convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza. In lui era intima la persuasione d'aver il compito di diffondere il Vangelo, perché la predicazione è condizione indispensabile per portare gli uomini alla salvezza: Non posso vantarmi se annunzio la Parola del Signore. Non posso farne a meno, e guai a me se non annunzio Cristo. (1 Corinzi 9: 16).

     Era tanto il suo ardore di predicare il Vangelo, o di esortare e convincere i credenti, che quando si trovò impedito a farlo con la parola parlata, non esitò a ricorrere alla parola scritta. Di qui le lettere che inviò ad alcune comunità cristiane, o ad alcuni servitori, già suoi discepoli, come Timoteo e Tito, o ad amici, da lui portati al Signore, come a Filemone.

     E’ ben noto che non tutte le lettere scritte da Paolo ci sono pervenute. Sappiamo, per esempio, che ai Corinzi ne scrisse tre, mentre ce ne sono rimaste solo due. La raccolta che è entrata fin da principio fra i libri ispirati del Nuovo Testamento ne comprende tredici (o quattordici, se consideriamo di Paolo anche quella agli Ebrei). Alcune sono lunghe (Romani, Corinzi), altre sono più brevi, come quelle ai credenti di Tessalonica e a quelli di Filippi; una poi è tanto breve che si potrebbe chiamare addirittura una cartolina: è appunto quella a Filemone, di cui dobbiamo parlare. Tutte queste lettere ora fanno parte della Scrittura, la rivelazione di Dio, e faremmo bene a leggerle come se l’Apostolo le avesse scritte anche per noi.

 

La fuga dello schiavo Onesimo

 

         Per un proficuo studio della lettera a Filemone sarà assai utile un’introduzione, che qui andiamo ad esporre in forma narrativa.

     Nell'Asia Minore, e precisamente nella città di Colosse viveva una famiglia benestante, composta di due sposi, Filemone e Appia, e d'un figlio, Archippo. Come tutte le famiglie ricche, possedeva un certo numero di schiavi, i quali generalmente erano povere creature anche dal punto di vista morale: ladri, ubriaconi, falsari, ecc. Uno di questi schiavi aveva nome Onesimo, parola che in greco significa Utile e che veniva usata per indicare appunto gli schiavi, comperati e venduti solo in vista della loro utilità. Costui dunque un bel giorno ne fece una grossa: rubò, pare, una grossa somma al suo padrone e prese il largo. Secondo il costume dell’epoca, in simili casi, gli schiavi erano puniti con le verghe o con la morte.

     Onesimo si recò sulla costa e lì attese una nave che lo portasse dove poteva starsene nascosto. Secondo il proverbio che dice che la massima città è la massima solitudine, il posto classico per nascondersi allora era Roma. Giuntovi, il fuggitivo spese quel poco o molto che gli restava del denaro rubato e, dopo un certo tempo, finì con incappare nell'autorità che, forse per altri delitti, lo mise in carcere. E in carcere, certamente per azione della Provvidenza divina, s’imbatté con l'Apostolo Paolo.

     (Sappiamo che Paolo visse due volte a Roma come prigioniero. La prima è quella di cui parla l'ultimo capitolo degli Atti. Costretto ad appellarsi a Cesare, per sfuggire alle insidie dei Giudei, era stato trasferito da Gerusalemme a Cesarea e da Cesarea, a spese dell’impero e con una scorta, per nave fino a Pozzuoli, vicino a Napoli; poi, lungo la via Appia Antica, fino a Roma. Qui, in un locale, preso in affitto, sorvegliato però sempre da un soldato (custodia militare), per due anni Paolo attese che si facesse il processo presso Nerone. Costui però aveva altro da pensare che a quel piccolo ebreuccio, e probabilmente il processo non ebbe luogo. Così l'Apostolo fu liberato, dopo quei due anni dei quali parlano gli Atti, che s'interrompono precisamente con questo accenno. Quando poi Paolo tornò a Roma per la seconda volta, vi subì il martirio, ma questo non è raccontato nel Nuovo Testamento).

     Paolo in quella prima prigionia aveva dunque una certa libertà di movimenti, perché sappiamo dagli Atti che ebrei e cristiani l'andavano a trovare per discutere con lui. Però siamo costretti ad ipotizzare che in quei due anni l'ApostoIo dovette subire qualche periodo di più rigorosa prigionia, in locali vicino al pretorio che era attiguo al palazzo di Nerone. Forse in uno di questi periodi conobbe lo schiavo Onesimo, che gli parlò della sua fuga, del furto, e gli riferì il nome della città, Colosse, e il nome del suo padrone, Filemone. Pensiamo ora alla meraviglia del povero schiavo, quando s'accorse che quell'ebreo, compagno di prigione, conosceva il suo padrone!

     (E’ noto che Paolo non fu mai a Colosse, quindi dobbiamo pensare che avesse conosciuto Filemone ad Efeso, dove gli abitanti dell'interno si recavano frequentemente per commercio. Sappiamo che Paolo dimorò tre anni in Efeso e che vi ottenne tali e tante conversioni da mettere in crisi l'industria dei fabbricanti di statuette rappresentanti Diana, la grande patrona del tempio e della città. Toccati nel soldo, quei fabbricanti organizzarono un comizio contro Paolo, a cui per fortuna egli non prese parte  -  l’avrebbero forse linciato  -  e che fu poi sciolto per ordine dell'autorità. Fra i convertiti per la predicazione di Paolo in quel soggiorno efesino, bisogna dunque mettere Filemone con la moglie Appia e con il figlio Archippo).

 

 

Il colloquio tra Paolo e Onesimo

 

          Ritorniamo a Roma e immaginiamoci il dialogo di Paolo con lo schiavo scappato.

 

  - Il tuo nome significa utile  -  dice Paolo.

  - Io però non fui utile al mio padrone  -  risponde Onesimo.

  - Perché?

  - Perché lo derubai e poi fuggii.

  - Poveretto... Fosti cattivo e m'ispiri molto affetto, perché forse hai operato per ignoranza, come feci io, quando combattevo contro Colui che ora è tutto il mio amore...

  - Chi è?

  - Cristo.

  - Il nome non mi è nuovo. Mi pare d'averlo udito ripetere in casa del mio padrone a Colosse.

  - Colosse?

  - Sì. Perché tale meraviglia? Ci sei stato?

  - No; ma ho là dei buoni amici, Filemone, Appia, Archippo... Diventi pallido? Taci? Perché?

  - Perché quelli erano i miei padroni...

 

     Potremmo continuare con un pizzico di fantasia questo dialogo, che comunque più o meno dovette svolgersi cosi. Di parola in parola, nel povero cuore di Onesimo maturò il senso di colpa, seguito dal pentimento, e poi dalla fede in Gesù, che lo avrebbe perdonato e salvato. In seguito, quando Paolo lo battezzò, Onesimo da schiavo prigioniero e colpevole si sentì come un fratello dell’Apostolo, che prese a considerarlo come suo figlio spirituale amatissimo!

 

 

L’occasione della lettera a Filemone

 

      Uno spiraglio delle successive conversazioni tra Paolo e Onesimo ci è stato conservato, e lo possiamo dedurre dalla lettera a Filemone.

     (A questo punto bisogna ancora supporre che Onesimo avesse scontato la pena, altrimenti egli non avrebbe potuto lasciare Roma).

 

  - Onesimo, ora che sei libero tu devi ritornare a Colosse  -  dice Paolo.

  - Io ritornare dal mio padrone? Mi punirà  -  risponde Onesimo.

  - No, Onesimo: egli è un vero cristiano, come ora sei tu. Egli ti perdonerà come ti ha perdonato Dio e ti riceverà come un fratello. Lascia fare a me. Egli mi fece dire che desiderava venire a Roma per aiutarmi nella mia prigionia...

  - Ma caro Paolo, ci resto io per lui...

  - Sarebbe un'idea buona, ma non posso accettare questo servizio, senza il suo consenso. Va dal tuo padrone e se egli poi vorrà rimandarti a me, ritorna pure e sarà per me un conforto.

  - Ma sei sicuro che mi perdonerà? Il furto fu grosso, tu lo sai...

  - Lascia fare a me. Ti farò una... cambiale, con cui il debito tuo passerà a mio carico... Del resto, Filemone mi è debitore, ma altro che di denari...

  - Hai ragione, Paolo. Perdona se ho dubitato: sono giovane nella fede, e mi riesce assai difficile pensare da uomo libero, io che fui per tanti anni schiavo di Satana, del peccato, e anche dei miei padroni...

  - Prima che essi diventassero cristiani. Dopo la tua fuga, essi si convertirono per la misericordia di Dio, che parlò loro per la mia povera voce, e ora sono servi di Cristo e quindi ancor più liberi di quando erano liberi; liberi come te, che da schiavo del peccato ti sei fatto schiavo di Cristo e quindi libero...

 - O Paolo, mio padre dolcissimo...

 - Onesimo, mio figlio carissimo...

 

     A questo punto viene chiamato lo scriba, e Paolo detta la lettera a Filemone, alla presenza di Onesimo. Possiamo immaginarci il volto di quest’ultimo, man mano che le parole uscivano dalla bocca dell'apostolo e si fissavano sul papiro.

 

 

Il testo della lettera

 

      Leggiamo ora insieme la lettera, non più supponendo, ma con la più ferma certezza d'udire la voce dell’Apostolo, che rendiamo dal testo originale greco, chiarendo con parentesi quadre certi rapidi passaggi, tanto caratteristici dello stile unico di Paolo.

 

     Paolo, prigioniero [per amore e servizio del Vangelo] di Cristo Gesù, e il fratello Timoteo, [scriviamo] al caro Filemone, nostro collaboratore [nell'opera del vangelo] e ad Appia, [nostra] sorella [nel lavoro per la fede] e ad Archippo, nostro compagno [nel santo combattimento per le anime] e all'assemblea dei fedeli che si riunisce in casa tua [o Filemone]. [Auguro] grazia a voi e pace da [parte di] Dio [che è] nostro Padre e da [parte di] Gesù Cristo [che è nostro] Signore.

     Io ringrazio continuamente il mio Dio, ricordandomi di te nelle mie preghiere, perché sento parlare dell’amore e della fede che hai  verso il Signore Gesù, e [che pratichi a vantaggio] di tutti i cristiani. Chiedo a Lui che la fede che ci è comune diventi efficace nel farti riconoscere tutto il bene che noi possiamo compiere, alla gloria di Cristo.

     Infatti ho provato una grande gioia e consolazione per il tuo amore, perché per opera tua, fratello, il cuore dei santi [e in particolare il mio] è stato confortato.

     Per tutte queste ragioni io, Paolo, semplicemente [così come sono], vecchio e per ora anche prigioniero [per amore] di Cristo Gesù, preferisco pregare te in nome dell’amore, anziché comandarti in nome di quella piena libertà che mi viene dalla fede in Cristo. E ti prego [non per me ma] per un mio figlio che ho generato [alla fede], mentre ero in catene: [costui è] Onesimo [che tu ben conosci, purtroppo!]. Egli, [che secondo il suo nome avrebbe dovuto esserti utile] fu [invece] molto disutile per te, ma ora è Utile [assai] per te e per me. Te lo rimando dunque, [io] che [lo] amo, come [se ti rimandassi] il mio cuore [e tu ricevilo come se ricevessi il mio cuore]. Veramente pensavo di trattenerlo presso di me, affinché mi assistesse in nome tuo, ora che sono in prigione a motivo del Vangelo; ma non ho osato farlo senza il tuo consenso, perché desidero che il tuo eventuale beneficio sia spontaneo e non già forzato. Egli forse si allontanò da te per un breve tempo, affinché tu lo riacquistassi per l'eternità, e non già come si riacquista uno schiavo, ma come si riacquista qualche cosa di più che un servo, cioè come si riabbraccia un fratello, che è carissimo a me e tanto più deve essere caro a te, sia come uomo, sia come credente.

     Dunque, se tu consideri me come unito a te nella fede, accogli [Onesimo] come accoglieresti me stesso. Se poi [ritieni che] egli ti ha offeso o è debitore verso di te di qualche cosa, metti tutto a mio conto!

     A questo punto, Paolo prende lo stilo dello scriba e, forse con malcelato sorriso, scrive a lettere grosse:

      Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io!

     Poi restituisce lo stilo e continua a dettare.

     Ma che pagherò! Dovrei dirti invece che tu sei debitore a me, e non debitore di danaro, ma debitore addirittura di te stesso! [Fuor di metafora] o fratello, fa' in modo che da te io colga questo soavissimo frutto nel Signore: consola il mio cuore in Cristo [cioè accogli e perdona Onesimo].

     Come vedi, ti scrivo con la piena fiducia che tu mi obbedirai, convinto anzi che farai ancor più di quello che ti domando.

     A proposito, tieni preparata per me la tua casa, perché spero che le vostre preghiere mi ottengano la grazia di rimandarvi a voi.

     Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia [per l'amore] in Cristo Gesù; ti salutano Marco, Aristarco, Dema e Luca, [che sono] miei collaboratori [nel servizio per il Signore].

     La grazia del Signore Gesù Cristo sia con lo spirito vostro.

 

     Figuriamoci ora Onesimo che si getta al collo dell’apostolo e poi parte per l'Asia, con un certo Tichico che con la lettera ai fedeli di Colosse e la circolare a noi nota come lettera agli Efesini, portava anche questo gioiello tra i gioielli paolini: la lettera a Filemone!

 

 

 

 

Onesimo, un simbolo per noi

 

Il fatto di questo schiavo che fugge cattivo e ritorna buono può rappresentare anche un simbolo, pur essendo un fatto storicissimo. Tutti noi eravamo degli Onesimi, cioè disutili e fuggitivi da Dio; tutti noi siamo andati viaggiando lontani da Lui, finché ci siamo imbattuti in Cristo Salvatore e Signore, annunziatoci per mezzo di qualche suo fedele servitore. Fu allora che il nostro cuore cambiò e ci ritrovammo riconciliati con Dio Padre, al quale siamo ritornati con una divina raccomandazione: quella di essere considerati come il cuore (il frutto del suo tormento, Isaia 53:11) del Redentore, che si era accollato il nostro debito .

 

 

 

La lettera a Filemone, un capolavoro

 

     Questa splendida lettera è rivelatrice della ricca e complessa personalità di Paolo: severo come un padre, tenero come una madre, con una simpatica vena di umorismo. Molti studiosi hanno levato cori di lodi verso questo capolavoro. Lutero: questa lettera è un perfetto ed amabile modello dell’amor cristiano. Calvino: è un quadro vivente di gentilezza.

 

 

 

La lettera a Filemone e il problema della schiavitù

 

    Vogliamo infine parlare di questa lettera come documento del duplice metodo che adoperò la chiesa primitiva di fronte alla schiavitù. Agli schiavi, diventati cristiani, veniva imposto l'obbligo di rendere fedele servizio ai padroni, anche se cattivi, con la chiara preoccupazione di separare l’insegnamento pratico da ogni forma di rivoluzione sociale, a base di ribellioni, di uccisioni e di sommosse (alla maniera di Spartaco!).

     Ma contemporaneamente, ai padroni si proclamava senza timore la grande verità dell'universale fraternità cristiana, mediante la quale veniva a morire di diritto e di fatto ogni forma di schiavitù. I padroni cristiani, come Filemone, dovevano vedere negli schiavi convertiti altrettanti fratelli, degni di tenero amore.

     Con rammarico dobbiamo constatare però che quest’ultima lezione non fu affatto compresa nel corso dei secoli, sia in campo cattolico che protestante. Basti ricordare per tutti il tristissimo e scandaloso comportamento dei proprietari terrieri nordamericani, sedicenti cristiani, verso gli schiavi negri convertiti, con tutto il seguito di sofferenze di questi ultimi, ben documentato dagli spiritual, che tuttora ci fanno fremere di sdegno.

     Potremmo concludere: Si fa presto a dire di essere cristiani !

 

 

                                                                       Davide Valente