A IMMAGINE DI DIO
In Genesi 1:26, 27 e 2:7 leggiamo: Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza (...)”. Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. (...) Dio il Signore formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente.
Che significa? La risposta più ovvia è quella dell’infusione dell’anima, cioè della parte immateriale, quella destinata a sopravvivere. Ma la questione è più complessa, perché riguarda tutte le facoltà dello spirito, con le quali l’uomo dovrebbe “glorificare Dio”, secondo Rom 1: 19-21.
Dante, nella Divina Commedia (INF. XXVI, 118), fa dire ad Ulisse che incita i compagni in prossimità delle “Colonne d’Ercole”:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
cioè, riflettete sulla vostra origine (semenza): Dio non vi ha creati per vivere come animali, seguendo l’istinto, senza l’uso della ragione, bensì per seguire la virtù e il sapere.
Infatti l’uomo è sempre alla ricerca di qualche cosa. Attratto dall’ignoto, spinto da una insaziabile sete di sapere, investiga e ricerca in continuazione. E l’Universo è appunto davanti all’uomo, per essere studiato ed ammirato. (Secondo San Paolo, Dio si è “manifestato” nelle sue opere, Rom 1:19).
Già nel 1000 a.C. Davide cantava (Salmo 19:1):
I cieli raccontano la gloria di Dio
e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani.
Ma Davide, senza strumenti, era in grado di vedere in cielo solo un migliaio di stelle. Oggi invece sappiamo che nella nostra galassia le stelle sono più di cento miliardi, e che nell’Universo ci sono altri cento miliardi di galassie...
Pensiamo anche allo smarrimento di Giobbe quando ascolta da Dio la descrizione delle sue opere (Giobbe cap 38-41). Alla fine egli esclama (42:3,6):
Sono cose per me troppo meravigliose...
Mi ravvedo, mi pento.
Un’altra delle facoltà dello spirito dell’uomo è la conoscenza del bene e del male. Dice San Paolo (Rom 2:15):
Gli uomini dimostrano che quanto la legge comanda è scritto nei loro cuori, perché la loro coscienza ne rende testimonianza, e i loro pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda.
Dovrebbe dunque essere la nostra coscienza a dirci ciò che è bene e ciò che è male. La voce della coscienza è infatti quella voce che mi grida talvolta “Tu devi” e, se non è ascoltata, insiste nel sussurrarmi “Hai fatto male”. E se la seguo, mi compensa con un senso di soddisfazione che mi esalta e mi solleva davanti a me stesso, anche quando un mio interesse ne è stato sminuito. E comanda e giudica con tono imperativo e sacro che non ammette repliche, e che dà ad essa risonanze come d’infinito e di misterioso e di lontano; eppure è così vicina ed intima al più profondo di me da confondersi col mio stesso essere. (Da ciò deriva che “essere un uomo senza coscienza” è la più severa sentenza di condanna che possa essere pronunziata su di me).
Se volessimo trattare il problema del bene e del male sotto l’aspetto filosofico, scopriremmo che esso rientra in una branca della filosofia chiamata “etica”.
Ma la coscienza può dare sempre affidamento? Sappiamo bene che essa può anche cambiare in peggio. Un mentitore alle prime armi arrossisce: Ma un mentitore incallito può guardare dritto negli occhi il suo interlocutore senza batter ciglio. Poco a poco sarà riuscito a “soffocare” la voce della sua coscienza, convincendosi infine che nelle menzogne non c’è in effetti nulla di perverso. Riguardo a questo argomento, Paolo parla di ipocriti e bugiardi, definendoli come persone che hanno la coscienza segnata da un “marchio” (1 Timoteo 4:2). E per quelli che chiamano bene il male e male il bene, l’Antico Testamento asserisce che andranno incontro a sicura rovina (Is 5:20,24).
La coscienza va dunque curata ed educata. (Paolo pregava il Signore per i Filippesi, onde potessero aumentare il loro discernimento, per approvare le cose migliori, Fil 1:9,10). E’ utile pertanto avere una serie di norme e di precetti morali di cui potersi fidare. I Cristiani dovrebbero poter trovare tutto ciò direttamente nella Bibbia. La Bibbia però non è un manuale; non fornisce regole fatte su misura per adattarsi ad ogni problema pratico. Essa dà un numero limitato di norme fondamentali, che funzionano come segnali. Chiedere di più è come cadere nella trappola dei Farisei, i quali, con incredibile pignoleria, avevano studiato e legiferato su ogni più piccolo problema.
Nelle chiese del periodo apostolico evidentemente mancavano le norme che noi oggi possiamo leggere nel Nuovo Testamento. Succedeva così che spesso gli Apostoli presentavano se stessi come modelli da imitare. Non valuteremo mai abbastanza l’enorme coerenza morale che occorse agli Apostoli per proporre se stessi come esempi di comportamento. Paolo scriveva: “Siate miei imitatori” (1 Cor 4:16; 11:1; Fil 3:17); “Le cose che avete imparate, ricevute, udite da me e viste in me, fatele” (Fil 4:9). Al discepolo Tito, suo figlio spirituale, dirà: “Da’ te stesso come esempio di opere buone “ (Tito 2:6,7). E Pietro, rivolgendosi agli anziani delle chiese, li esorterà ad essere essi stessi “gli esempi del gregge” (1 Pie 5:3).
Le precedenti considerazioni ci ricordano che non viviamo solo per noi stessi: gli altri ci guardano! Tutto ciò ha delle implicazioni assai più vaste di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Così, quando ci accingiamo ad ascoltare la voce della nostra coscienza, non dobbiamo mai trascurare la preoccupazione per gli altri. Per esempio, è pericoloso pensare che il nostro senso del bene e del male abbia raggiunto un grado di infallibilità al quale gli altri non sono ancora arrivati. Un cristiano dovrebbe essere particolarmente prudente quando pensa di approvare delle cose che la maggior parte dei credenti considerano un male.
Per illustrare meglio il concetto, consideriamo l’insegnamento di Paolo ai Corinzi sulla “libertà cristiana” (1 Co 10:23 sg.). Alcuni credenti di Corinto ragionavano così: “Se sono convinto, in coscienza, che una cosa non sia cattiva, allora la posso fare, mi è lecito farla”. Replica Paolo: “In teoria sì, ti sarebbe lecito farla; ma se non è utile ai fratelli, se non serve al bene della comunità, allora non devi. Perché non devi pensare solo a te stesso, ma anche agli altri”. Impariamo così che il nostro comportamento deve essere tale da non scandalizzare nessuno, e che “la coscienza degli altri” può limitare la nostra libertà (v.29).
Fin qui abbiamo fatto delle considerazioni generali. Sarebbe però presuntuoso ritenere che ora siamo in grado di affrontare ogni problema. Per lo meno però dovremmo avere chiari i termini per un approccio.
Proviamo a fare un elenco dei cosiddetti “problemi di attualità”; esso certamente non è né ordinato né completo, tuttavia provoca in noi una notevole emozione:
I problemi che riguardano la sfera sessuale, all’interno e al di fuori del matrimonio - Il controllo delle nascite - L’aborto - Il divorzio - L’educazione dei figli - La bioetica - L’eutanasìa - Il lavoro - Lo sciopero - La giustizia sociale - La crisi economica - La fame nel mondo - Gli extracomunitari - Il tempo libero - La proprietà - Denaro e ricchezza - Le tasse - L’evasione fiscale - Il gioco d’azzardo - I diritti degli animali - L’ecologia - Libertà di espressione e censura - Pubblicità e consumismo - La violenza - La guerra - Il servizio militare - L’obiezione di coscienza - Le autorità - La protesta civile - Le punizioni - La pena di morte - L’impegno sociale - L’impegno politico - La solidarietà - Il volontariato -
In effetti, di certi argomenti parliamo poco, e di qualcuno addirittura non parliamo affatto. Può darsi che sia per una scelta di principio; oppure riteniamo di non essere competenti su molte materie, e vorremmo che a trattarle intervenissero degli specialisti. E’ possibile anche che abbiamo riluttanza a confrontare le nostre vedute, per timore di trovarci in disaccordo. Tuttavia non possiamo ignorare l’istanza delle giovani generazioni, che vorrebbero sentir maggiormente dibattere i problemi dell’oggi; e non avendo opportunità di partecipare a campi e convegni dove per avventura tali temi vengono trattati, sono poi portati ad attingere le risposte alle “cisterne screpolate” del mondo. Consideriamo che invece ogni credente dovrebbe poter fornire delle risposte meditate su ciascun argomento di attualità, coerentemente con la sua professione di fede e alla luce dell’insegnamento globale delle Scritture. Se pensiamo a questo, certamente veniamo colti da un vago senso di vertigine, e siamo portati ad esclamare con l’Apostolo (2 Co 2:16): “Chi è sufficiente a queste cose?” (cioè, chi è all’altezza di questo compito?).
C’è poi una terza caratteristica dello spirito dell’uomo che lo porta a distinguersi nettamente dalle creature inferiori: è la disposizione verso il bello. L’amore del bello per se stesso (al di fuori cioè di alcun fine utilitario) è un’attitudine che l’uomo deve aver “appreso” da Dio, essendo stato fatto a sua immagine e somiglianza.
La Bibbia stessa ci presenta Dio come un artista. Egli è il creatore di opere stupende, di fronte alle quali l’uomo è portato ad esclamare (Salmo 92:4,5):
Io canto di gioia per le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere o Signore!
La disciplina filosofica che studia gli aspetti del bello si chiama “estetica”.
Quando un uomo esprime in qualche modo il suo amore per il bello, si dice che fa dell’arte. Tra le arti possiamo annoverare la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la poesia.
Parliamo ora in dettaglio di quest’ultima, la poesia. Forse non ci siamo mai accorti che nella Scrittura - soprattutto nell’Antico Testamento - la poesia è presente in misura notevolissima. E siccome la Scrittura è Parola di Dio, anche la “forma” in cui venne redatta deve essere considerata nel suo giusto valore.
Nell’Antico Testamento siamo abituati a distinguere i libri in Storici (da Genesi a Ester, 402 capitoli), Poetici (Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, 243 capitoli), e Profetici (250 capitoli). Ovviamente i libri storici sono scritti in prosa e i libri poetici sono scritti in poesia. Ma forse non sappiamo che anche gran parte dei libri profetici sono stati scritti in poesia (nella proporzione del 66%, cioè 2 su 3). Tutto questo ha certamente un perché. Se Dio avesse voluto, ci avrebbe fatto pervenire tutto il suo messaggio in prosa. Ma invece lo Spirito Santo ha consentito (“ha voluto”) che gli scrittori esercitassero la loro creatività nel comporre testi pieni di grazia e di bellezza sotto l’aspetto stilistico e formale.
La poesia ebraica si differenzia dalla prosa non solo per il linguaggio magnifico ed elevato e per lo stile fiorito ed immaginoso, ma anche per la simmetria di pensiero (parallelismo) e per la simmetria di suono (ritmo) che si osserva nel verso.
(Un linguaggio particolare è presente nella poesia di qualunque popolo. Si possono fare diversi esempi tratti dalla poesia italiana. Per esempio, nella “Quiete dopo la tempesta” di Giacomo Leopardi troviamo le parole augelli, in su, a prova, a cor, piova, ecc.).
Quanto alla simmetria di suono, o ritmo, nella poesia ebraica essa è del tipo accentuativo non sillabico:
Gam ki-helek b.ghei zal-mawet lo hirah ra ki-attah himmadi
(Esempi tratti dall’italiano: Nel mezzo del cammin di nostra vita, endecasillabo con 5 accenti; E caddi come corpo morto cade.).
Merita un esame particolare il parallelismo dei membri. Il verso ebraico è formato da due parti (o membri) uguali, dette emistichi (dal gr. hemì = mezzo e stìchos = verso). Il parallelismo dei membri, che la poesia ebraica ha in comune con quella babilonese, egiziana e cananea, consiste nella corrispondenza di pensiero (talvolta di forma) che c’è tra i membri o emistichi del verso. In altri termini, i membri del verso ebraico sono paralleli, in quanto essi variano lo stesso pensiero. Il parallelismo si dice:
- a)sinonimico, quando il pensiero del primo membro è ripetuto nel secondo, con espressioni o parole simili, per es.:
Lodate il Signore, voi nazioni tutte!
Celebratelo, voi tutti i popoli! (Salmo 117:1).
- b)antitetico, quando il pensiero del primo membro è rafforzato nel secondo con un’antitesi o contrasto, per es.:
Poiché il Signore conosce la via dei giusti,
ma la via degli empi conduce alla rovina. (Salmo 1:6).
Ma vogliamo rilevare soprattutto il caso degli acrostici, nei quali il virtuosismo dei poeti biblici si è espresso in misura eccezionale. Considerando gli esempi qui riportati, c’è da restare veramente senza fiato.
Vediamo intanto che cosa dobbiamo intendere per acrostici. Essi sono dei componimenti poetici nei quali le iniziali dei versi o degli emistichi si succedono secondo un ordine prestabilito, per esempio formando delle parole. Nell’Antico Testamento gli acrostici sono alfabetici, cioè le iniziali delle varie ripartizioni si succedono in modo da formare l’alfabeto ebraico (che si compone di 22 lettere, alef, bet, ghimel, dalet, ecc.).
Citeremo ad esempio il Salmo 25 (22 versi); il Salmo 34 (22 versi); il Salmo 111 (con 22 emistichi); il Salmo 112 (idem); il Salmo 119 (22 x 8 = 176 versi); il Salmo 145 (21 + 1 versi). Sono acrostici alfabetici anche i capitoli 1-4 di Lamentazioni e il brano di Proverbi 31:10-31 (inno alla donna virtuosa). In particolare, nei capitoli di Lamentazioni e nel Salmo 119 ogni strofa comincia con una successiva lettera dell’alfabeto. Ma il virtuosismo raggiunge il massimo nel già citato Salmo 119 e nel cap. 3 di Lamentazioni, perché qui ogni stico (verso) reca entro la stessa strofa la medesima lettera dell’alfabeto.
Si capisce che l’acrostico alfabetico non si può riprodurre in una traduzione. Ma non è nemmeno corretto ignorarne gli elementi. Per esempio, nella Riveduta e nella Vecchia e Nuova Diodati risultano evidenziate solo le lettere del Salmo 119, mentre la Nuova Riveduta non ne reca traccia. Per avere notizia degli elementi alfabetici bisogna ricorrere quindi ad altre versioni meno usate (Concordata, Bibbia di Gerusalemme).
Conclusione
Siamo partiti dalla considerazione che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, e abbiamo spiegato questo concetto dicendo che l’uomo possiede delle caratteristiche uniche, come il desiderio di conoscere, la facoltà di discernere il bene dal male, e l’amore per il bello in tutte le sue espressioni.
E’ importante quindi che il credente si renda conto che tutte le volte che investiga la natura per conoscerla più a fondo, o sta per esprimere un giudizio giusto, oppure apprezza il senso del bello in qualsivoglia sua manifestazione, egli si accinge a glorificare Dio, il Signore onnipotente e santo, che ha creato ogni cosa con infinita saggezza, in una arcana e solenne armonia.
Davide Valente