Il colloquio tra Gesù e Pietro sulla riva del lago di Tiberiade
Il colloquio tra Gesù e Pietro sulla riva del lago di Tiberiade
Lettura del testo: Gv cap 21.
Quasi tutti i commentatori considerano il capitolo 21 un’aggiunta posteriore, ritenendo Gv 20:30-31 la vera chiusa del Vangelo. Ecco la nota della “Bibbia di Gerusalemme” all’inizio del capitolo 21: Aggiunto o dall’evangelista stesso o da un suo discepolo. Chi accetta la seconda ipotesi, si chiede poi se questa parte fu aggiunta vivente ancora l’apostolo o subito dopo la sua morte. Nel caso dell’apostolo ancora vivente, viene fatta valere l’espressione “questo è il discepolo che rende testimonianza... e che ha scritto queste cose” (24), che si riferirebbe all’intero Vangelo. Per sostenere invece che il capitolo 21 fu scritto dopo la morte dell’evangelista, si fa riferimento al v. 23: in realtà (23a) si era diffusa la voce che Giovanni sarebbe rimasto in vita fino al ritorno del Signore, secondo la promessa attribuita allo stesso Gesù, e questa convinzione era confermata dal fatto che quell’apostolo era diventato vecchissimo. Ma poi invece ad un certo punto Giovanni era morto, e per evitare che si dicesse che Gesù si era sbagliato, ecco la precisazione (23b): “Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: “Se voglio che rimanga finché io venga, che t’importa?”.
Dal v. 1 al v. 22 si svolge il racconto della Terza Manifestazione del Cristo Risorto (il verbo greco efanérosen, aor. pass. di faino, significa apparire, diventar visibile, manifestarsi). Il v. 14 precisa che “questa era già la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo esser risuscitato dai morti”. Appare evidente (cap. 20) che lo scrittore considera come Prima Manifestazione quella di Gesù ai discepoli riuniti in assenza di Tommaso il giorno stesso della risurrezione, e come Seconda Manifestazione quella di otto giorni dopo, presente Tommaso. Non vengono quindi conteggiate le apparizioni a Maria Maddalena (Gv 20:11-18), alle donne (Mt 28: 9) e ai due discepoli di Emmaus (Lu 24:13-32; Mc 16:12). (Resta difficile da spiegare l’apparizione a Simone di Luca 24:34, per la quale non ci sono riscontri negli altri Vangeli, e a cui forse fa riferimento 1 Co 15:5).
Cerchiamo di immedesimarci nello stato d’animo dei discepoli, e soprattutto di Pietro. Dopo la Seconda Manifestazione, tutti quanti erano rimasti a Gerusalemme per un’altra settimana, forse due, ma Gesù non si era più fatto vedere. Probabilmente quegli anni passati con lui erano stati soltanto un sogno, tanto valeva allora tornarsene in Galilea. “Io vado a pescare”, dice Pietro. “Veniamo anche noi”, rispondono gli altri.
E’ interessante scorrere l’elenco di questi pescatori. Oltre a Pietro, c’è Tommaso, quello che alcuni giorni prima aveva toccato le ferite di Gesù risorto esclamando: “Signor mio e Dio mio!”. C’è Natanaele (chiamato anche Bartolomeo), della città di Cana, e i due figli di Zebedeo, cioè Giacomo e Giovanni, di cui è detto chiaramente in Mt 4: 21,22 che erano pescatori. In tutto erano sette. I due non nominati potrebbero essere Andrea, fratello di Pietro, e Filippo, amico di Natanaele.
Ricordiamo che Pietro, con Giovanni, la mattina della Risurrezione aveva verificato il vuoto della tomba, e Giovanni, secondo il suo stesso racconto, “vide e credette” (Gv 20:8). Ma qual è il risultato? “Vado a pescare”, dice Pietro; “veniamo anche noi”, rispondono gli altri. Se uno fa una stupidaggine, ce ne sono sempre molti altri disposti a seguirlo. Si potrebbe andare ad annunziare la risurrezione. No: andiamo tutti a pescare. Nella chiesa come altrove, quando uno va a pescare dei pesci quando si potrebbero pescare delle persone, garantito che si segue chi va a pescare dei pesci. Ma Gesù non è risuscitato perché possiamo andare a pescare dei pesci, cioè a fare i fatti nostri.
Comunque, i discepoli si affaticano tutta la notte senza prendere nulla (così allo scoraggiamento e alla stanchezza si aggiunge anche la frustrazione: non sono più capaci neanche di pescare!). Non ci sorprende pertanto che rispondano quasi meccanicamente all’invito di quello sconosciuto che gli dice di calare nuovamente la rete.
Ne consegue una pesca eccezionale. L’episodio ha delle interessanti somiglianze con la “pesca miracolosa” di tre anni prima (Lu 5:1-11 e rif.). Quando finalmente la rete si gonfia per l’enorme numero dei pesci, Giovanni per primo capisce che lo sconosciuto è proprio il Signore: lo dice subito a Pietro, il quale agisce in modo impulsivo, com’è suo costume (7b). Chissà se in quel momento i discepoli rammentano le parole di tre anni prima: “Sarete pescatori di uomini!” (Mr 1:17). Gesù sta ad attenderli a riva; certamente vuole rinnovare la chiamata, ma questa volta non adopera parole: ha acceso un fuoco e ha preparato la colazione.
Gesù chiede ai discepoli di portare anche qualcuno dei pesci che hanno appena pescato (10). Pur non avendo bisogno di nulla - siamo noi ad avere bisogno di Lui - egli desidera la nostra collaborazione. L’imbarazzo dei discepoli è al culmine: sanno che è il Signore, anche se nessuno osa domandarglielo (12), e si aspettano anche una solenne lavata di capo. Ma Gesù distribuisce loro il pane e il pesce senza dire una parola, ed essi neppure.
In modo particolare Pietro, dalla famosa notte dell’arresto, vive con un problema: il suo rapporto con Gesù, prima particolarmente stretto, si è inesorabilmente guastato. Gli altri discepoli lo sanno, lo guardano con imbarazzo, e nessuno osa parlargliene a tu per tu. E Pietro non osa rivolgersi al Signore per chiedergli perdono. Gesù allora assume l’iniziativa e lo prende in disparte con grande delicatezza. Così, dopo colazione, ha luogo il famoso “colloquio”.
Più che un colloquio, lo potremmo definire un interrogatorio. E’ un interrogatorio penoso ma necessario. Durante il suo ministero Gesù aveva detto: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherè davanti agli uomini, anch’io rinnrgherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10:32,33).
Gesù fa la prima domanda chiedendo agapàs me = mi ami. Il verbo greco agapao significa amare in modo nobile e incondizionato. Pietro risponde filò se = ti amo (ti voglio bene, N.R.). Il verbo greco fileo indica invece un tipo di affetto considerevole ma non incondizionato. Nella seconda domanda Gesù usa ancora il verbo agapao e Pietro risponde con fileo, mentre nella terza domanda Gesù usa fileo, come Pietro. Vorrei far notare che, per quanto mi risulta, finalmente per la prima volta la N.R. ha messo in evidenza in italiano la differenza tra agapao e fileo traducendoli rispettivamente con i verbi amare e voler bene. (Anche la TILC l’aveva fatto, però usando amare al posto di voler bene pure nella terza domanda di Gesù, vanificando così il ricupero del significato del testo originale).
Va ancora osservato che la prima domanda di Gesù a Pietro è una domanda doppia. Gesù infatti chiede a Pietro: ”Mi ami (nel senso di agapao), e se sì, mi ami più di questi altri che ti sei portato dietro a pescare?”. Pietro, nel passato, aveva fatto delle dichiarazioni reboanti, si era lanciato a camminare sull’acqua, si era offerto come paladino e difensore, aveva sfoderato la spada... Una volta, era stato il solo a fare una dichiarazione veritiera sulla figura del Cristo, meritandosi per questo un elogio solenne. Gesù aveva abitato nella sua casa, a Capernaum, come si deduce da Mr 1:29, dove è detto espressamente che Gesù si recò nella casa di Simone (ossia Pietro) e Andrea. E probabilmente, da quella volta, quando faceva rientro a Capernaum dopo i suoi viaggi, Gesù si fermava lì, e quella veniva considerata la sua casa, come risulta da Mr 2:1: “Dopo alcuni giorni, Gesù entrò di nuovo in Capernaum, e si seppe che era in casa”. Nell’episodio del pagamento della tassa del Tempio, riferito da Matteo (17:24-27), si vede Pietro che sta sulla porta di casa a parlare con gli incaricati della riscossione, mentre invece Gesù era dentro. La domanda degli esattori: ”Il vostro Maestro non paga le didramme?”, presuppone che questi ne conoscessero bene il recapito.
Dunque, Pietro e Gesù avevano abitato a lungo nella stessa casa, e si doveva essere determinato fra loro un notevole affiatamento. E quando Gesù gli predice che lo avrebbe rinnegato tre volte (Gv 13:38), Pietro aveva appena finito di dire che sarebbe stato pronto a dare la sua vita per il Signore. Ma ora, a prescindere dalla delusione per la fine tragica del Maestro e l’incapacità di comprendere quelle sue strane apparizioni e sparizioni, il fatto è che ha perso la fiducia in se stesso. In effetti Gesù sta permettendo a Pietro di rivivere con lui i ricordi dolorosi che lo opprimono, quelli di quando aveva rinnegato il suo Maestro per tre volte, imprecando e giurando di non averlo mai conosciuto (Mt 26:72,74). Ma poi, al canto del gallo, Gesù si era voltato e i loro sguardi si erano incontrati (cfr. Lu 22:61), e Pietro allora, presa coscienza della sua vigliaccheria, pieno di vergogna se ne era uscito fuori a piangere amaramente.
E quindi ora, anche se tutti gli altri si dimostrano frustrati e pusillanimi, lui, Pietro, non può certo sentirsi migliore di loro. Perciò alla seconda parte della prima domanda non risponde. E quanto alla prima parte, sente onestamente che non può andare oltre il fileo. Perciò dice: “Tu lo sai”. E come c’erano stati tre rinnegamenti, ora il Maestro gli fa la domanda tre volte, il che spiega perché Pietro alla fine si senta “triste” e risponda “Signore, tu conosci” (17).
Si può fare una considerazione anche a proposito dei verbi usati nelle risposte di Pietro: “Signore, tu sai” (gr. oida), e “Signore, tu sai ogni cosa, tu conosci” (gr. ghinosko). Il secondo termine dà l’idea di una conoscenza più profonda, basata sull’esperienza diretta.
Va poi messo in evidenza anche il differente significato dei verbi usati nelle tre esortazioni a Pietro: nella prima e nella terza è usato il verbo bosko, tradotto con pascere, e nella seconda il verbo poimaino, tradotto con pasturare. Si può dire che i due verbi descrivono tutti i tipi possibili di cure che si debbono avere per il gregge.
Un’altra differenza si trova nella definizione dei componenti del gregge di cui Pietro dovrà prendersi cura: nella prima esortazione sono indicati gli agnelli (gr. arnìa), nella seconda e terza esortazione le pecore (gr. pròbata). I termini usati fanno pensare che un cristiano al quale è affidato un ministero pastorale non si troverà soltanto a dover accudire degli agnelli, ossia dei membri di chiesa semplici e con poca esperienza, ma anche delle pecore, cioè degli elementi maturi e talvolta ribelli e immeritevoli di attenzione. Se dunque davvero Pietro è disposto a diventare un pastore di anime, dovrà sondare il suo amore per Gesù, il vero Pastore che dà la sua vita per le pecore. E soprattutto dovrà pensare che tutti, agnelli e pecore, sono di Gesù: “Pasci i miei agnelli; pastura le mie pecore”.
Pietro riceve da Gesù, col perdono e la riabilitazione, anche l’annuncio del suo futuro martirio. L’espressione “ti cingevi da solo” (gr. ezonnues, da zonnuo = cingere, mettere la cintura, vestirsi), sta ad indicare il modo con cui gli antichi si apprestavano al viaggio. (La CEI traduce in modo più esplicito “ti cingevi la veste da solo”). L’espressione “cingersi (i fianchi)” era usata anche in senso estensivo col significato di “apprestarsi a fare qualcosa”. In 1 P 1:13 è usata addirittura in senso metaforico riguardo alla mente: “Cinti i fianchi della mente”, che ora la N.R. - ricalcando la CEI - rende con “Dopo aver predisposto la vostra mente all’azione”, mettendo in nota la traduzione letterale.
La predizione di quel che gli succederà da vecchio si riferisce ovviamente al martirio di Pietro. L’accenno alle mani stese secondo alcuni indicherebbe la posizione in croce, in quanto Pietro, secondo la tradizione fu crocifisso a testa in giù (a Roma sotto Nerone, nell’anno 66). Dal v. 19a si deduce che l’autore del cap. 21 era al corrente dell’avvenuta morte di Pietro. E’ notevole il concetto di “glorificare Dio con la propria morte”.
Poi, dopo avergli predetto il futuro martirio, Gesù ordina a Pietro: “Seguimi” (19b). Pietro aveva già ricevuto in passato da Gesù l’ordine di seguirlo (Mt 4:19). Ora, dopo tre anni, Gesù glielo riconferma. Pietro non ha più dubbi ormai: è stato riabilitato e ha un piano già predisposto fino alla fine dei suoi giorni.
Sola Riabilitazione o anche Investitura? L’interpretazione cattolica
Come è noto, gli interpreti cattolici insistono molto sull’investitura. Ecco il lapidario commento della BJ: “Alla triplice professione di attaccamento di Pietro, Gesù risponde con una triplice investitura. Affida cioè a Pietro il compito di reggere in suo nome il gregge (cfr. Mt 16:18; Lu 22:31 ss.)”.
Il testo classico della dottrina romana si trova nella “Constitutio dogmatica prima de Ecclesia Christi” (Concilio Vaticano del 1870).
Il testo vaticano afferma di fondarsi sulla testimonianza dell’evangelo e dichiara che l’Investitura a Pietro è una manifesta dottrina delle sacre Scritture. Infatti, secondo le testimonianze dei passi neotestamentari citati (tra i quali il famoso “Tu sei Pietro” di Mt 16:16-19 e “Pasci i miei agnelli, pastura le mie pecore” di Gv 21:15-17), il testo dice che “è stato da Cristo Signore promesso e conferito immediatamente e direttamente al beato apostolo Pietro non solo un primato di onore, ma un vero e proprio primato di giurisdizione; egli è stato da Cristo stabilito principe di tutti gli apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante”. E il testo termina con il perentorio avvertimento: “Chi nega questo, sia anatema”.
In effetti, le asserzioni riportate nel testo vaticano ebbero origine nel Medioevo, per giustificare ed assecondare le ambizioni dei vescovi di Roma. E comunque, la lettura dei documenti neotestamentari induce ad escludere con assoluta certezza che l’apostolo Pietro venisse nel secolo apostolico considerato il fondamento ed il capo della Chiesa, con autorità di giurisdizione sugli altri apostoli e su tutta quanta la Chiesa, nel modo in cui l’intende la Chiesa Romana.
Considerazioni conclusive
a) Il colloquio personale con Gesù. Che significa veramente essere cristiani? E’ una domanda che molti si pongono. Ebbene, qui l’autore del IV Vangelo conclude il suo lavoro dopo aver descritto molti “segni e miracoli” compiuti da questo grande personaggio, Gesù di Nazaret, che era in realtà il Messia (il Cristo), il Salvatore del mondo, ed invita tutti i lettori a credere in lui per avere la vera vita (20:30,31). E poi aggiunge un Epilogo. Ci aspetteremmo a questo punto un finale veramente grandioso; e invece troviamo una conversazione a tu per tu fra Gesù e un discepolo alquanto screditato. Perché il Cristianesimo in definitiva è proprio questo: uomini e donne che vengono, uno ad uno, ad incontrare Gesù in un’esperienza che trasforma la loro vita.
b) Solo se si ama Gesù lo si può seguire. La martellante domanda di Gesù mette alle strette Pietro, e fa affiorare per la prima volta alla sua coscienza una verità che fino ad allora aveva percepito solo a livello emozionale: egli in realtà ama Gesù. In effetti, l’interrogatorio ha rattristato Pietro, ma è pur vero che le risposte di Pietro hanno deluso Gesù: Pietro amasoltanto secondo il verbo fileo e non secondo il verbo agapao. Tuttavia Gesù si accontenta e, dopo avergli lasciato intravedere l’imminente metamorfosi da discepolo irruente e ribelle a testimone obbediente e fedele fino a pagare con la vita il prezzo del suo amore per Cristo, gli dice: “Seguimi”. In effetti, Gesù affida a Pietro un bene preziosissimo, “i suoi agnelli e le sue pecore”, e ciò che dovrà spingere Pietro a prendersene cura sarà soltanto l’amore per il Signore (non quindi la volontà di primeggiare, o il senso di un dovere da compiere, cfr. 1 P 5:2,3).
Se svolgiamo un servizio nella nostra comunità, da quale motivazione ci sentiamo spinti?
c) Quand’eri più giovane, andavi dove volevi. Abbiamo visto qual è il significato di cingersi. Quando si decide di servire il Signore, non bisogna andare dove si vuole, ma dove il Signore ci manda. Pietro era impulsivo per carattere, e amava prendere delle decisioni indipendenti. Ma ora non può più fare a modo suo. Se il Signore gli dice “Seguimi”, deve andare dietro di Lui, anche dove “non vorrebbe”.
d) Glorificare Dio con la vita e con la morte. Pietro ha appena ricevuto l’annunzio del proprio martirio. Non ha più dubbi ormai: è stato riabilitato ed ha un piano predisposto fino alla fine dei suoi giorni. E qual è la sua reazione? Vedendo arrivare il suo amico Giovanni, chiede al Signore: “E di lui, che sarà?” (21). Ma la risposta di Gesù è sorprendentemente secca e tagliente: “Che te ne importa? Tu, seguimi”.
Che cosa può significare questa frase per noi? Forse, che nel servire il Signore non dobbiamo guardare a ciò che fanno gli altri. Per esempio, non dobbiamo desiderare per noi lo stesso mandato che è stato affidato ad altri; oppure non dobbiamo pretendere, se abbiamo ricevuto una chiamata speciale, che altri vi si adeguino (o peggio, criticarli se non lo fanno). Dio ha un piano personale per ciascuno di noi. L’importante per noi non è tanto sapere quale sarà la fine che ci toccherà (forse nessuno di noi sarà chiamato al martirio), ma che con la nostra vita e con la nostra morte riusciamo veramente a “glorificare Dio”.
Davide Valente