I PIEDI DEL MESSAGGERO

 

I PIEDI DEL MESSAGGERO

 

            Lettura di Isaia 52:7-10

 

7. Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annuncia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Il tuo Dio regna!”.

8. Ascolta le tue sentinelle! Esse alzano la voce, prorompono tutte assieme in grida di gioia; esse infatti vedono con i propri occhi il SIGNORE che ritorna a Sion.

9. Prorompete assieme in grida di gioia, rovine di Gerusalemme! Poiché il SIGNORE consola il suo popolo, salva Gerusalemme.

10. Il SIGNORE ha rivelato il suo braccio santo agli occhi di tutte le nazioni; tutte le estremità della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

 

            Contesto storico e genere letterario

 

            Tutti i commentatori sono concordi nel ritenere che l’autore in questo passo stia parlando della liberazione degli Ebrei dalla “Cattività Babilonese”, concessa dal persiano Ciro nell’anno 538 a.C. (L’autore dice addirittura che Ciro era l’unto del Signore, l'uomo che Dio aveva scelto per liberare il suo popolo, Isaia 45:1-7).

            La liberazione degli Ebrei fu un evento di eccezionale importanza, dal quale prese l’avvio quel fenomeno grandioso noto come “Risorgimento Giudaico” (del quale ho avuto modo di parlare in dettaglio alcuni anni fa).

 

        Nel brano in esame, e in molti altri analoghi del messaggio profetico di Isaia, l’annuncio di salvezza è trasfigurato in composizioni poetiche che presentano aspetti peculiari, ed hanno paralleli con passi assai noti del Nuovo Testamento. Possiamo per esempio osservare che il messaggio di salvezza suscita la gioia, e questa gioia va ben al di là di quanti sono direttamente interessati all’evento, perché raggiunge i vicini, il mare e le isole, il deserto e i suoi abitanti, arrivando fino ai confini del mondo, tipo: “Cantate al SIGNORE un cantico nuovo..., cantate le sue lodi all’estremità della terra...” (Is 42:10). Nel Vangelo di Luca, Simeone canta così: “Ora, Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo..., perché i miei occhi han visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli, per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Lu 2: 29-32).

            Inoltre, il linguaggio del messaggio di salvezza è un linguaggio che appartiene alla sfera personale, tipo: “Io sono il tuo Creatore, non temere, io ti ho chiamato per nome, io sono con te” (Is 43:1,2). Notiamo nel Vangelo di Luca le espressioni: “Oggi è nato per voi un Salvatore”; “i miei occhi hanno visto la tua salvezza”.

            Infine, dovremmo immaginare il nostro brano come un responsorio “cantato”, che segue logicamente la lamentazione di 51:9 - 52:3.

 

 

 

 

 

            Commento al testo

 

7. Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annuncia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Il tuo Dio regna!”.

 

            Evidentemente, non sono “i piedi” in se stessi ad essere belli (figura retorica), ma ciò che essi rappresentano, cioè l’araldo che arriva con la sua buona notizia.

            “Sui monti” richiama subito il concetto geografico di Gerusalemme, nota per trovarsi tra le montagne (“Gerusalemme è circondata dai monti”, Salmo 125:2), La rievocazione doveva risuonare particolarmente suggestiva per i deportati di Babilonia, costretti ormai da alcuni decenni a vivere nelle terre piatte della Mesopotamia.

 

            E’ difficile per noi, nell’era della televisione satellitare e dell’informatica, concepire l’angoscia o la speranza di chi vedeva avanzare lentamente un messaggero: che notizie avrebbe portato? Buone o cattive? E neanche riusciamo più a renderci conto dei sentimenti del messaggero, il quale non era uno strumento passivo come gli attuali portalettere, ma era al corrente, nel bene e nel male, del messaggio che recava. E talvolta, se il messaggio era cattivo, rischiava di fare egli stesso una brutta fine (da cui la raccomandazione “ambasciator non porta pena”). Nel caso poi che la notizia fosse buonissima, si dava da fare per portarla al più presto a destino, rischiando anche in questo caso la pelle, come capitò al famoso messaggero che, ansioso di portare subito ad Atene l’annunzio della grande vittoria dei Greci sui Persiani a Maratona (anno 490 a.C.), fece i famosi 42 km di corsa ed, estenuato, cadde morto stecchito all’arrivo.

            Comunque, nel nostro caso le notizie buone sono pace e salvezza, il massimo che un individuo o un popolo possano desiderare, al di fuori di ogni riferimento contingente. La dichiarazione che segue reca lapidariamente il testo dell’annuncio: “O Gerusalemme, il tuo Dio è [tornato ad essere il] Re!”.

            Questo messaggio di salvezza non è nuovo, o meglio, non è la prima volta che compare in Isaia. Infatti, nel cap. 40, ai vv. 9 e seg., l’autore descrive un messaggero che, salito sulle montagne, porta buone notizie a Gerusalemme: “Ecco il Signore, Dio, viene con potenza (...). Come un pastore, egli pascerà il suo gregge: raccoglierà gli agnelli in braccio, li porterà sul petto (...)”. E’ ovvio presumere che l’aggancio storico sia il medesimo: l’annunzio che portava quel messaggero è quello dell’Editto di Ciro, con l’imminente ritorno degli esiliati e il contestuale ristoramento di coloro che, rimasti a Gerusalemme, avevano trascorso tutti quegli anni veramente malissimo.

            Quest’ultimo elemento si deduce dalla descrizione dei primi tentativi che fecero i reduci per ricostruire il tempio (Ed cap 3): fu necessario prima riedificare le case; ricomprare le terre occupate da altri; risolvere le innumerevoli questioni di diritto e di proprietà, sorte nel frattempo, e rese più difficili dalla ostilità delle popolazioni che si erano insediate nel paese. Attingendo poi altre notizie dal cap. 5 delle Lamentazioni, vediamo che gli Ebrei rimasti a Gerusalemme erano costretti ad acquistare dai vincitori i generi di prima necessità (5:4); erano soggetti alle angherie dei sàtrapi babilonesi (spesso ex schiavi, promossi a quell’ufficio dalla corte reale) (5:8); se poi provavano ad andare nei dintorni per procurarsi del pane, correvano il rischio di essere uccisi dai predatori beduini (5:9); i ragazzi erano costretti a fare i lavori più gravi ed umilianti (5:13). Sappiamo inoltre che a Gerusalemme lo stato di desolazione si protrasse molto a lungo, ben al di là del “primo rimpatrio” (ancora al tempo di Neemia  -  circa 140 anni dopo la caduta della città  -  persistevano umiliazione e miseria, cfr. Ne 1:3).

            Quindi è ben comprensibile l’ansia e l’emozione delle sentinelle (v. 8) quando vedono arrivare il messaggero. Ma è interessante mettere a confronto i due messaggi: nel primo, Dio è il Pastore; nel secondo, Dio è il Re. Nel primo, Dio sta per riprendere la sua opera di misericordia e di bontà; nel secondo, Dio ha riassunto la sua maestà che sembrava compromessa, e che ora invece imporrà fino alle estremità della terra.            Avendone il tempo, si potrebbero cercare in vari Salmi gli accenni a questi due aspetti della manifestazione divina riguardo al suo popolo.

 

8. Ascolta le tue sentinelle! Esse alzano la voce, prorompono tutte assieme in grida di gioia; esse infatti vedono con i propri occhi il SIGNORE che ritorna a Sion.

 

            Alla voce del messaggero si aggiungono le voci delle sentinelle sulle mura (o meglio, sulle rovine, 51:3). E all’atto di ascoltare segue quello di vedere. Che cosa vuol dire qui l’autore? Probabilmente, e con raffinata concisione, intende riferirsi all’arrivo della prima carovana dei reduci da Babilonia (= Il SIGNORE che ritorna a Sion), a seguito dell’Editto di Ciro già ricordato

            (L’Editto di Ciro era stato ritenuto “impossibile” dagli scettici, fino alla scoperta di un decreto analogo, scritto su un cilindro di terracotta, oggi esposto nel Museo di Londra).

            Comunque, nel 538 a.C. non tutti i Giudei di Babilonia vollero tornare; molti preferirono rimanere e contribuirono alla ricostruzione con le loro offerte (Ed 1:6). La colonna di reduci (tra liberi e schiavi erano circa 50.000, Ed 2:64,65) partì sotto la guida di alcuni capi, tra i quali si distinguevano particolarmente un principe della casa di Davide, Zorobabel (nipote di Ioiakin, deportato nel 597, cfr. Ed 3:2; 1 Cr 3:17; 2 Cr 36:9,10), e il sacerdote Jesua (nipote del sommo sacerdote Seraia ucciso da Nabucodonosor a Ribla, cfr. 1 Cr 6:15; 2 Re 25:18-21). Essi portavano gli arredi del Tempio (oltre 5000 oggetti d'oro e d’argento, Ed 1:11) che erano stati consegnati loro per ordine di Ciro, e notevoli somme di denaro ed oggetti preziosi offerti dai loro connazionali (Ed 1:6; 2:9).

            Una delle prime cure dei reduci, all'arrivo, fu di ricostruire l'altare degli olocausti sul piazzale del Tempio devastato, in modo da poter riprendere la celebrazione dei sacrifici quotidiani (Ed 3:1-3). Invece la ricostruzione del Tempio apparve in un primo momento addirittura impossibile, per le difficoltà a cui abbiamo accennato in precedenza. Tuttavia quei coraggiosi Ebrei riuscirono con mille sacrifici ad acquistare i materiali per la ricostruzione, compreso il legname di cedro del Libano, che doveva essere fatto affluire via mare fino al porto di Giaffa, vicino all'attuale Tel Aviv.

            E' interessante sapere che gli archeologi hanno identificato questo antico approdo alla foce del piccolo fiume Yarkon, nella località dove, all'epoca persiana sorgeva una cittadina, costruita secoli prima dai Filistei. La località è oggi nota sotto il nome di Tell Qasile.

 

9. Prorompete assieme in grida di gioia, rovine di Gerusalemme! Poiché il SIGNORE consola il suo popolo, salva Gerusalemme.

 

            Prima, c’era solo la voce del messaggero; poi, quelle delle sentinelle, tutte voci e grida di gioia. Ora, nella conclusione dell’inno di lode del nostro “poeta”, si aggiunge il coro di tutti gli abitanti di Gerusalemme (indicati metaforicamente come le “rovine”).

 

            In Ed 3:8 sg. è descritto l’inizio della ricostruzione del Tempio, con la posa della prima pietra, che ebbe luogo due anni dopo il ritorno. La cerimonia fu oltremodo commovente (v. 11-13): mentre i giovani si rallegravano, gli anziani, che avevano in mente il Tempio prima della sua distruzione, piangevano dirottamente. (Certamente si ricordavano cosa avesse significato per Israele quella "Casa", e perché era stata distrutta, cfr. 1 Re 9:6-9). E intanto i canti e i gridi di gioia, mescolati ai pianti, facevano risuonare le parole dei Salmi 107, 118 e 136:

    "Celebrate il Signore perché Egli è buono, perché la sua bontà dura in eterno".

 

10. Il SIGNORE ha rivelato il suo braccio santo agli occhi di tutte le nazioni; tutte le estremità della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

            L’immagine del “braccio del SIGNORE” è presente in altri passi di Isaia, di solito nelle invocazioni di aiuto (cfr. Is 51:9: “Risvègliati, rivèstiti di forza, braccio del SIGNORE, come nelle antiche età!”). Ma quando sembrò che il Signore si fosse dimenticato dei suoi, ecco affiorare lo scoraggiamento rassegnato (“Sion ha detto: “Il SIGNORE mi ha abbandonata, il Signore mi ha dimenticata”, Is 49:14). Ci vengono qui in mente le accuse cocenti fatte al Dio che si è dimenticato dei suoi: “Dove sono il tuo zelo, i tuoi atti potenti?  (...) Noi siamo diventati come quelli che tu non hai mai governati, come quelli che non portano il tuo nome!” (Is 63:15, 19).

            Ma ora finalmente tutto torna come avrebbe sempre dovuto essere (in ambiente greco potremmo parlare di catarsi o di nèmesi). E l’antropomorfismo palese (il “braccio di Dio”) non guasta, anzi rende più efficacemente che mai l’idea del soccorso, proprio al culmine della vicenda, quando nessun’altra soluzione è più possibile. (Ricordiamo l’episodio di Pietro che, affondando, gridò: “Signore, salvami!, e subito Gesù, stesa la mano, lo afferrò...”, Mt 14:30,31).

            “Agli occhi di tutte le nazioni”. La voluta promiscuità di Israele con gli altri popoli (le “nazioni”) era stata considerata fin dall’inizio come una “prova di fedeltà” (cfr Gc 3:4-7). Ma, come sappiamo, la prova fallì, perché la sudditanza nel campo della tecnologia, delle arti e della cultura spinse gli Israeliti ad assimilare anche le pratiche idolatre dei popoli in mezzo ai quali erano stati chiamati a vivere la loro “testimonianza”. E’ un concetto che si potrebbe sviluppare con innumerevoli citazioni. Voglio ricordare soltanto quello che chiamo “il passo del fischio” (1 Re 9:6-9), con le parole che Dio aveva detto a Salomone dopo la dedicazione del tempio: “Se voi o i vostri figli vi allontanate da me, se non osservate i miei comandamenti, e andate a servire altri dei..., rigetterò dalla mia presenza la casa che ho consacrata al mio nome. Chiunque le passerà vicino rimarrà stupefatto e si metterà a “fischiare”; e si dirà: “Perché il SIGNORE ha trattato così questo paese e questa casa?”. Si risponderà: “Perché hanno abbandonato il SIGNORE, loro Dio...”.

            Occorreva pertanto che la salvezza, la svolta nell’economia della storia d’Israele, venisse palesata agli occhi di tutte le nazioni, come era stato per la punizione che avevano dovuto subire.

 

            La “lettura cristiana”

 

            Si potrebbe proseguire ancora con la Storia degli Ebrei, ma si impone ad un certo punto una diversa “chiave di lettura”. Paolo, nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani, affronta il complesso tema del futuro d’Israele e giunge alla conclusione che la salvezza arriverà anche per loro attraverso la fede in Cristo. “Ma come potranno credere se non ne avranno mai sentito parlare?”  -  si chiede l’Apostolo. E a questo punto cita liberamente (dalla Settanta, com’è sua abitudine) il nostro passo di Isaia: “Quanto son belli i piedi di quelli che annunziano buone notizie!”. Nel greco, “quelli che annunziano buone notizie” è: “ton evanghelizomenon ta agathà”, lett. “quelli che fanno un buon annunzio di cose buone”. E’ evidente che Paolo sta pensando agli “evangelisti”, cioè a quelli che recano l’annuncio del Vangelo, che per antonomasia è “la Buona Notizia”. Sviluppando il concetto, e rimanendo in ambito neotestamentario, partiamo dalla Annunciazione a Maria di Nazaret (Lu 1:26 ss), poi passiamo all’Annuncio ai pastori di Betlemme (Lu 2:8 ss): “evanghelizomai umin charan megalen”, “evangelizo vobis gaudium magnum”, ed arriviamo infine, con un processo a valanga, alle successive divulgazioni della Buona Notizia, cioè che quel Gesù era proprio il Cristo (cioè il Messia promesso dai profeti) e che era venuto a salvare il mondo (cfr. Gv 4:29, 42).

 

            Argomenti peculiari

 

            a) La “Buona Novella”

 

            Abbiamo visto l’uso che Paolo fa di questo passo di Isaia. Ricordiamo pure 1 P 1:10-12, dove l’autore asserisce che i profeti dell’Antico Patto, quando parlavano di “salvezza”, inconsciamente si riferivano (anche) a cose future legate alla venuta e alla passione di Cristo, “che ora vi vengono annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo”.

            Ma qual è il Buon Annuncio? Ovviamente, non è soltanto quello legato alla Nascita di Gesù (verificatasi, secondo Ga 4:4, “quando giunse la pienezza del tempo”) ma si estende a tutta la missione del Cristo (“Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, Gv 1:29). Avendo tempo a disposizione, potremmo mettere in evidenza i tre aspetti dell’Annunzio: la pace, la salvezza e il regno (o il regnare di Dio), cercando per ciascuno di essi i passi opportuni nel Nuovo Testamento.

 

            b) Il privilegio di essere gli araldi della Buona Novella.

 

            Consideriamo di nuovo il personaggio del messaggero: forse un insignificante ed umile marciatore, che ha avuto la “fortuna” di essere stato scelto come latore di così grandi e importanti notizie. Si può ricordare il brano di Paolo in 2 Co 4:7, in cui l’Evangelo è paragonato ad un “tesoro”, e i Cristiani a cui è affidato sono chiamati “vasi di terra”. Perché “vasi di terra”? C’è da sapere che nell’antichità le anfore (ossia i vasi di terra) erano i contenitori abituali per il trasporto di tutti i liquidi e i solidi incoerenti, e normalmente non venivano lavati e riutilizzati, perché costava troppo: era meglio quindi romperli e farne dei nuovi. A Roma, vicino all’antico porto d’arrivo sul Tevere, ammucchiando centinaia di milioni di cocci di anfore, si era formata nel corso dei secoli un’intera collina (è quella oggi nota come “Testaccio”). Ecco quindi chiarita la metafora di Paolo sui “vasi di terra”: assolutamente insignificanti in sé, ma nobilitati dal “contenuto”, cioè dal Vangelo, che è simile a un “tesoro”.

 

            c) La “gioia” connessa con l’annuncio e l’accettazione del messaggio.

 

            “Evangelizo vobis gaudium magnum” (Lu 2:10). E’ una gioia presente in chi annunzia e in chi accetta il Vangelo. Il carceriere di Filippi e la sua famiglia, nella notte in cui avevano accettato la salvezza predicata da Paolo, “erano pieni di gioia per aver creduto in Dio” (nel greco, aor. del verbo agalliao = esultare), At 16:34. Il Regno di Dio, cioè il regnare di Dio nella vita quotidiana dei Cristiani, si deve manifestare, secondo Paolo, con la giustizia, la pace e la gioia (cfr. Ro 14:17b). “Rallegratevi sempre nel Signore”, viene detto ripetutamente ai Filippesi, cioè cercate di ricuperare quella gioia che avete persa litigando scioccamente tra voi. Ciò si deduce da questa accorata esortazione che Paolo rivolge loro: “Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute”, Fl 2:14). Infatti per quei cristiani ogni quisquilia diventava occasione di discussioni senza fine.

 

            d) L’universalità e la natura della testimonianza.

 

            “Tutte le estremità della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”. Che cosa può significare in chiave cristiana? Paolo si chiedeva: “Come potranno sentirne parlare [cioè di Dio e della sua grazia] se non c’è chi lo annunzi?” (Ro 10:14c). Le ultime raccomandazioni di Gesù furono, secondo Matteo: “Andate ed ammaestrate tutte le nazioni” Mt 28:19; e secondo gli Atti: “Mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra” (At 1:8b).

            Paolo diceva, scrivendo ai Corinzi: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Co 9:16b). La testimonianza però non si fa solo predicando il Vangelo. In 1 P 2:12 troviamo che gli scettici saranno portati a cambiare idea riguardo ai Cristiani “osservando le loro opere buone”, fino al punto di dare essi stessi gloria a Dio. Paolo disse anche, parlando del suo impegno nella predicazione: “E’ l’amore di Cristo che ci costringe [a comportarci così]” (2 Co 5:14a). Ma ricordiamo che questo versetto, nel latino della Vulgata, campeggia come motivazione all’ingresso del Cottolengo di Torino (“Charitas Christi urget nos”).

 

            Evidentemente i due tipi di testimonianza possono, anzi devono, coesistere. I “media” ci fanno sapere che ogni pochi secondi nel mondo muore un bambino per fame, e che l’ottanta per cento delle risorse del pianeta è in mano a poche persone che appartengono alle nazioni cosiddette cristiane. Che testimonianza è?

            Il Signore per ora ci lascia su questa terra, a vivere l’esperienza del suo Regno attuale (“ci ha trasportati nel Regno del suo amato Figlio”, scrive Paolo ai Colossesi, Cl 1:13). Il Signore ci ha affidato delle mine e dei talenti; che cosa ne stiamo facendo? Quelli che ci stanno attorno di solito li ignoriamo, oppure li consideriamo solo come “messe da mietere”. Ma i loro bisogni dovrebbero muoverci a pietà, spingendoci a soccorrerli. Però le attività di carattere sociale si dice non siano molto congeniali alle nostre chiese, salvo alcune lodevoli eccezioni (vedi la partecipazione in favore del Burkina-Fasu con la missione SIM).

        Dovremmo forse imparare a considerare con più attenzione quei movimenti o quelle correnti cristiane che hanno fatto dell’assistenza il loro vessillo. Diceva William Booth, il fondatore dell’Esercito della Salvezza, che “è difficile salvare un uomo che ha i piedi bagnati”. Come è noto, questo movimento evangelico ha avuto origine nell’Inghilterra del 1800, quando gli effetti della rivoluzione industriale si facevano sentire in tutta la loro pesantezza: città che crescevano come funghi, sfruttamento dei minori, giovani dediti al crimine, donne di malavita. (Oggi in alcune nostre plaghe la situazione non è certo migliore: criminali, barboni, drogati, prostitute). Booth aveva coniato per il suo “Esercito” il motto delle “Tre Esse”: Soup (= minestra), Soap (= sapone), Salvation (= salvezza). La saggezza cristiana contenuta in queste “Tre Esse” per portare soccorso all’umanità non sarà mai sottolineata abbastanza.

            Ricordiamoci che i Cristiani “dovrebbero” essere sale della terra e luce nel mondo. I campi di attività sono tutti davanti a noi, bene in evidenza. Non ravvisiamo forse in essi “le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo”? (Ef 2:10). Quante colpe pesano sulla coscienza dei Cristiani nel corso dei secoli, partendo dalle Crociate, passando per l’Inquisizione, fino alla tratta degli schiavi africani sulle navi negriere e il loro disumano sfruttamento nelle piantagioni d’America!

            Abbiamo acennato ai mali attuali del pianeta. Ci sono delle disuguaglianze colossali. Più di un miliardo degli esseri umani beve acqua inquinata. Un terzo soffre di sottoalimentazione. Perfino nella civilissima Buenos Aires i bambini stanno morendo di fame. Abbiamo osservato che l’uno per cento degli uomini possiede più del cinquanta per cento della terra (il Signore aveva detto: “Tutta la terra è mia!”). Milioni di diseredati tentano la migrazione a rischio della vita. Sempre più le multinazionali monopolizzano le materie prime, le risorse alimentari e le medicine essenziali, avendo come solo obiettivo il profitto. I produttori e i commercianti di droga operano praticamente indisturbati. I fabbricanti di armi (fra cui purtroppo alcune industrie italiane) speculano sui conflitti locali.

            Basterebbe un po’ più di amore da parte dei Cristiani: “L’amore non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità” (1 Co 13: 6).

            Che il Signore ci aiuti a non perdere quel po’ di sale che ancora ci è rimasto, e a far risplendere la nostra luce tirandola fuori da sotto il recipiente: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei Cieli” (Mt 5:16).

            Che il Signore ci aiuti a fare di più anche sul piano individuale, e a comportarci in modo che gli altri se ne accorgano. E se poi qualcuno ci chiede: “Perché lo fai?”, dovremmo potergli rispondere semplicemente: “Perché sono un Cristiano!”.

            Oggi i Cristiani, nei paesi di religione islamica sono particolarmente malvisti, e non solo dai fondamentalisti più fanatici. Non sarebbe difficile elencarne le ragioni. Questa contrapposizione rischiererebbe  -  secondo alcuni  - di portarci ad un conflitto planetario. Chiudo applicando a questa situazione il famoso passo (parafrasato) della Prima Lettera di Pietro (1 P 2:12), che avevo già citato in precedenza:

 

     “Carissimi fratelli cristiani, comportatevi con equità e giustizia nei riguardi dei non cristiani, in particolare degli Islamici. Così, invece di parlare male di voi chiamandovi malfattori, vedendo quanto bene fate dovranno lodare Dio nel giorno in cui Egli si avvicinerà a loro”.

 

 

 

                                                                                         Davide Valente