IL PROBLEMA DELLA SOFFERENZA

 

IL PROBLEMA DELLA SOFFERENZA

 

            L’afflizione come prova della fede

 

            Nell’Antico Testamento troviamo il caso eclatante di Giobbe. I suoi amici pretendevano di convincerlo che tutto quello che gli stava capitando era conseguenza dei terribili peccati che certamente aveva commesso. Ma noi sappiamo che non era così, perché in effetti il Signore lo stava provando... 

            Sul soggetto della prova della fede troviamo nel Nuovo Testamento molte indicazioni. Giacomo (1:3) dichiara che la prova della fede produce costanza. 1 Pietro 1:6,7 dice poi che le prove affinano la fede, come si fa per l’oro che è affinato col fuoco.

            A volte le prove consistono in tentazioni alle quali veniamo esposti. Al riguardo, ciò che più ci conforta è il passo seguente: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscirne, affinché la possiate sopportare” (1 Co 10:13).

 

            L’afflizione come condizione esistenziale

           

            In Gb 5:7 viene detto che “l’uomo nasce per soffrire, come la favilla per volare in alto”. Ricordiamo la maledizione contenuta in Ge 3:17-19: “mangerai il frutto della terra con affanno, tutti i giorni della tua vita; mangerai il pane col sudore del tuo volto...”. Alcuni passi del Nuovo Testamento esprimono il concetto che siamo destinati alle tribolazioni (1 Te 3:3; 1 P 4:12). Paolo parla poi della intera creazione che soffre: “Fino ad ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo”(Ro 8:22,23).

            Cito un brano di V. Subilia: “Il misterioso ma immenso linguaggio di sofferenza che la natura parla, che si leva dalle profondità inesplorate della creazione in travaglio, costituirebbe nel suo complesso il gemito di un’agonia cosmica senza speranza se non ci fosse stato Cristo. Ma in quanto Cristo è venuto, in quanto Cristo è stato crocifisso a significare che tutte le cose vecchie sono passate, in quanto Cristo è risorto a significare che tutte le cose sono fatte nuove, in virtù della dimensione cosmica della sua opera redentrice, questo gemito si configura come le doglie del parto di un mondo nuovo, fatto di nuovi cieli e di nuova terra, che corrisponde all’uomo nuovo ricreato in Cristo...” (V. Subilia, Il problema del male).

 

            Il lamento dell’afflitto 

 

            I ragionamenti fatti in precedenza, dobbiamo riconoscere che sono alquanto teologici. Dal canto suo invece, l’afflitto quanto prima si chiederà il perché della sua sofferenza, e a quel punto, non trovando risposte soddisfacenti, griderà a Dio.

            Sappiamo che i non credenti (o quelli che lo sono solo di nome) talvolta si lasciano andare ad offendere quel Dio nel quale non credono, rimproverandogli le loro disgrazie.

            Sappiamo che i non credenti dicono: “Se ci fosse un Dio, non permetterebbe queste cose”. C’è poi tutto il capitolo degli eventi catastrofici, durante i quali muoiono migliaia di persone: “Dov’era Dio  -  si dice  -  non poteva impedirlo?”. E a proposito del male morale, per esempio, Primo Levi dichiarò: “Non può esistere Dio, se c’è stato Auschwitz”. Viene così messa in dubbio addirittura l’esistenza di Dio, non solo la sua Provvidenza!

            Ma torniamo al grido dei credenti. “Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri...” (De 26:6,7). Nell’Antico Testamento, troviamo molti casi di gridi, di lamenti, e di preghiere-lamenti. Gli stessi scrittori sacri si sentivano spesso fremere di sdegno di fronte a quella che a loro sembrava essere “l’indifferenza di Dio”. Ecco un brano dove il profeta Abacuc dichiara la sua perplessità di fronte alle atrocità di cui è spettatore: “Fino a quando griderò, o Signore, senza che tu mi dia ascolto?... Tu, che hai gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male, e che non puoi tollerare lo spettacolo dell’iniquità, perché guardi i perfidi e taci quando il malvagio divora l’uomo che è più giusto di lui? Perché tratti gli uomini come i pesci del mare, e come i rettili, che non hanno padrone?” (Abac 1:2, 13-14). Addirittura, la lamentazione era diventato un genere musicale del quale i salmisti o i profeti dovevano tener conto scrivendo le loro composizioni. Questo è il caso del successivo Cantico di Abacuc: “Preghiera del profeta Abacuc, sul tono delle lamentazioni: Signore, io ho udito il tuo messaggio... (Ac 3:1,2); ho udito, e le mie viscere fremono, io tremo ad ogni passo (16); ma Dio, il Signore, è la mia forza (19a). Al direttore del coro; per strumenti a corda (19b)”.

            La preghiera nel momento dell’afflizione non si limita ad una richiesta fredda e melanconica di intervento divino. Il credente invece spande il suo cuore, racconta a Dio le proprie disgrazie, anche se sa benissimo che Dio già le conosce. Qualcuno pensa che Dio chieda all’uomo di stare zitto, generalizzando il passo che dice: “Sta’ in silenzio davanti al Signore, e aspettalo” (Sal 37:7). Questo atteggiamento ci porterebbe però a farci chiudere in un cupo mutismo, arrovellandoci così senza scampo nel nostro dolore. Altri poi ritengono che occorra aggiungere ad ogni richiesta a Dio la precisazione: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”, svuotando in pratica la richiesta di ogni significato. Ma il grido a Dio è tutt’altro. Dice Matteo 27:46, raccontando l’agonia di Gesù sulla croce: “Verso l’ora nona, Gesù gridò a gran voce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Come è noto, sono le parole del Salmo 22:1, che così prosegue: “Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito! Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi, e anche di notte, senza interruzione. Eppure tu sei il Santo... I nostri padri confidarono in te; confidarono e tu li liberasti. Gridarono a te e furono salvati, confidarono in te, e non furono delusi. Ma io sono un verme e non un uomo...” (1b-6a)Se riusciamo per un momento a distaccarci dall’interpretazione esclusivamente messianica di questo passo, potremo cogliervi l’immensa angoscia di un uomo sofferente, ridotto ad un verme, che chiede a Dio “perché”, e grida a Lui affinché venga liberato, né più né meno di come è accaduto nel passato ad altri che confidarono nel soccorso divino.

 

            La speranza

 

            Dopo il grido a Dio con l’esposizione delle attuali angosce, segue sempre, nei Salmi di lamentazione, l’affermazione che solo da Dio può venire il soccorso. Ed ecco le motivazioni: perché nel passato ha soccorso quelli che confidavano in Lui; perché la sua fedeltà non può venir meno e quindi manterrà le sue promesse; perché è il vero nostro Padre e da sempre è il nostro Salvatore.

            Quindi la speranza del credente non è soltanto un’ipotetica prospettiva del futuro, ma è la certezza che Dio interverrà; e questa certezza dà origine ad un’attesa fiduciosa nella sua liberazione. Questa convinzione si basa sul fatto che Dio manifesterà nei nostri riguardi la sua grazia e la sua misericordia. In effetti, non ci meriteremmo nulla, ma Dio ci farà omaggio della sua benevolenza (ci farà grazia); e se anche intendesse punirci, siamo certi che non ci punirà secondo la misura delle nostre colpe (ci farà misericordia).

            Ci sono rapporti e analogie, nella Bibbia, fra i concetti di “speranza, sperare” (ebr. tiqwah; gr. elpìs), “confidanza, confidare” (ebr. batak; gr. peitho) e “fede” (ebr. emunà; gr. pistis). Nel Salmo 32 Davide, dopo aver confessato il suo peccato e raccontato le sofferenze che Dio gli inflisse, dichiara la beatitudine di chi sa che è stato perdonato, constatando che “chi confida nel Signore sarà circondato dalla sua grazia” (10b). Ma mentre “chi confida nel Signore” è reso in ebraico col verbo “batak”, la Settanta traduce con “elpizo”, “sperare”.

            Nei Vangeli il sostantivo speranza si trova poche volte, ma questo significa semplicemente che tutto quello che altrove è posto sotto il segno della speranza, nei Vangeli è posto sotto il segno della fede. (Solo nelle lettere di Paolo troveremo una distinzione “teologica” tra fede e speranza, mentre in altri passi del Nuovo Testamento la “speranza“ sarà intesa solo in senso escatologico). Tornando ai Vangeli, proviamo a leggere i seguenti passi con in mente il concetto di speranza-confidanza nell’aiuto di Dio: “Ogni cosa è possibile per chi crede” (Mc 9:23b); “Se avete fede quanto un granel di senape... niente vi sarà impossibile” (Mt 17:20”. Ovviamente, questo non significa che dobbiamo tentare di spostare le montagne, ma piuttosto che siamo invitati a tenere ben presente, nei momenti di difficoltà, che per Dio “niente è troppo difficile” (Ge 18:14), e che Egli “può fare infinitamente di più di quel che domandiamo o pensiamo” (Ef 3:20).

 

 

                                                                                       Davide Valente