IL COLLOQUIO DI ABRAMO CON DIO
IL COLLOQUIO DI ABRAMO CON DIO
(Lettura di Genesi 18:17-33)
La storia di Abramo fino al “Colloquio con Dio”
La storia di Abramo va da Ge 11:26 a Ge 25:11 (circa 14 capitoli). Dal punto di vista storico, la vicenda di Abramo e degli altri patriarchi risulta ben inserita nella storia profana. Si tratta di una famiglia di nomadi che vive, a partire dal XIX secolo a.C., tra la Mesopotamia, l'Alta Siria e gli Ittiti, fino alla regione dei regni semiti occidentali (Canaan) e all'Egitto. Il periodo dei patriarchi è messo bene in luce dalle scoperte archeologiche di Mari, Nuzi, Ebla, Egitto. Oggi i patriarchi possono essere accettati come personaggi storici possibili, vissuti in un contesto sociale e politico reale.
La chiamata. Abramo fu chiamato da Dio (elezione, vocazione). Dio è sovrano, misterioso e imprevedibile. Dio sceglie Abramo e con lui la famiglia dei suoi discendenti. Dio chiama Abramo e Abramo obbedisce, crede e spera guardando al futuro. Dio insegna ad Abramo a camminare alla Sua presenza. Dio confida ad Abramo i suoi segreti pensieri (Abramo viene indicato come "Amico di Dio", Gm 2:23). Tutta la Storia della Salvezza, dall'origine di Israele alla venuta del Messia, prende le mosse dalla chiamata di Abramo.
La promessa. La promessa di Dio segue immediatamente la chiamata fatta ad Abramo (Ge 12:1-3). La famiglia di Abramo veniva da Ur, una antichissima città della Bassa Mesopotamia, centro di una grande civiltà. Tera, padre di Abramo, emigra con tutta la sua famiglia fino a Caran, nell'Alta Mesopotamia (11:31). E qui avviene il fatto umanamente inspiegabile: Dio fa irruzione nella vita di Abramo, si fa conoscere a lui e lo chiama per una missione grande e misteriosa (12:1-3). L'obbedienza di Abramo sottolinea la sua fede; ecco perché egli sarà chiamato il padre di tutti quelli che credono (Ro 4:11; Ga 3:7).
Abramo dunque lascia suo fratello Naor e tutta la parentela e viene nel paese di Canaan, con Lot suo nipote, per il quale si sente responsabile dopo la morte del padre di lui. Passa per Sichem, per Bethel, fino ad arrivare al Negev (12:9), la regione semidesertica al sud della Palestina.
La promessa divina gli viene rinnovata più volte (12:2,3; 12:7; 13:14-17; 15:1-6). Essa riguarda dapprima beni visibili, numerosa discendenza, il possesso della terra di Canaan, le ricchezze materiali. Si delinea però una promessa di carattere spirituale, che si esplicherà in seguito (22:16-18; cfr. Ga 3:8,9,16,18).
La giustificazione per fede (Ge 15:1-6). Abramo aveva mostrato la sua fede obbedendo a Dio. Poi, riguardo alla questione dell'erede, la sua fede ci viene chiaramente spiegata: egli crede a Dio sulla parola, e continua a credere, sebbene Dio ritardi l'adempimento della sua promessa, che comunque, è bene ribadirlo, riguarda una cosa umanamente irrealizzabile. (Abramo “credette, sperando contro speranza”, Ro 4:18). Con questa fiducia in Dio, Abramo entra nel piano della salvezza, che comunque Dio non gli aveva chiaramente rivelato. D'altra parte, la salvezza non era chiara per Abramo come non lo fu in seguito per varie generazioni, fino ai profeti, che "indagarono e fecero ricerche" sulle cose a venire, cfr. 1 P 1:10-12.
Abramo dunque, senza capire chiaramente, credette a Dio. La sua fede fu un atto di pura fiducia, e il Signore gliela accreditò come giustizia (11:6). In questo senso egli può essere considerato veramente il "padre di quelli che credono".
(Per la giustificazione per fede, vedi Ro cap 4; per Abramo padre dei credenti, vedi Ga 3:7,29).
Il patto di alleanza (Leggere Ge 15:18; 17:1-14). Il patto, dapprima stipulato solennemente, viene in seguito ribadito. Esso viene definito "patto eterno" (Ge 17:7). Il nome di Abramo (= padre eccelso, patriarca) viene mutato in Abraamo (= padre di una moltitudine, padre fecondo) (v.5). Il "segno" del patto sarà la circoncisione (17:10).
Abramo, l'Amico di Dio. L'espressione "Amico di Dio" si trova in Is 41:8 ed è poi ripresa in Gm 2:23. Il suo significato più evidente traspare proprio dal brano di Ge 18:16-33, oggetto del nostro studio. In questo passo troviamo dapprima Dio che manifesta l’intenzione di mettere al corrente Abramo dei suoi piani; in seguito, con un crescendo di sconcertante intensità, è raccontato come Abramo riuscì, per ben sei volte di seguito, a far “cambiare le decisioni" dell'Onnipotente. Alcuni considerano questo testo come un perfetto esempio di quanto la comunione con Dio e la fede di un credente possano ottenere in termini di risposta (cfr. Mr 9:23).
Note di commento al testo
vv 20,21
Quello che qui è chiamato “Signore” (nell’originale indicato col Tetragramma) è uno dei tre uomini apparsi ad Abramo alle Querce di Mamre (18:1,2). E’ evidente che si tratta di una “Teofania antropomorfica”. Alcuni hanno a lungo discusso di quale persona della Trinità si trattasse, avanzando l’ipotesi dell’Angelo del Signore, come Cristofania che ha preceduto l’incarnazione. Non mi sembra il caso di addentrarci in queste considerazioni.
Nella complessa storia di Abramo a cui prima abbiamo accennato, l’Onnipotente, il Creatore di tutto l’Universo e dell’Umanità, per suoi imperscrutabili motivi, aveva preso l’iniziativa di chiamare il patriarca e stipulare un patto con lui per farlo diventare una grande nazione. E i versetti 17-19 del nostro capitolo ribadiscono questa intenzione del Signore, e ce lo mostrano a sua volta come l’Amico di Abramo, a cui non vuole nascondere nulla. Il richiamo alla giustizia e al diritto, che Abramo avrebbe dovuto insegnare ai suoi figli, è importante perché getta luce sul significato del colloquio che seguirà.
Il fatto che il Signore onnisciente dovesse “andare a vedere di persona” per rendersi conto se le cose che gli erano giunte all’orecchio sui peccati di Sodoma corrispondevano effettivamente alla realtà, secondo me può essere connesso all’antropomorfismo di cui è imbevuta tutta la vicenda, e non ci spenderei altre parole.
vv 22b-25
Qui cominciano le richieste di Abramo, che sono in realtà una reiterata e prolungata “preghiera di intercessione”. E questa è anche la prima preghiera importante ricordata dalla Scrittura. Si tratta di un’intercessione interamente preoccupata del prossimo e della sua sorte davanti alla giustizia di Dio. Essa non è un monologo, che Abramo pronuncia con la vaga speranza di essere forse ascoltato. Invece Abramo parla a Dio con la certezza di ricevere risposta. E la riceverà, ripetutamente! Ecco perché abbiamo indicato tutto il brano come “Colloquio di Abramo con Dio”.
Gli argomenti addotti da Abramo sono sostanzialmente due, intimamente connessi. Il primo fa appello all’amore di Dio per i giusti, e alla sua misericordia, chiedendo quindi indulgenza (temporanea?) per gli empi. Il secondo argomento si basa sul convincimento che un giudice importante deve essere anche equo. Quindi il Signore, che è il Giudice di tutta la terra, non può trattare allo stesso modo il giusto e il peccatore.
v 26
Nella risposta divina il fatto che un equo giudice non deve condannare i giusti con gli empi non è neanche preso in considerazione, perché si dà per scontato che non si possono far pagare agli innocenti le colpe dei peccatori. Né Abramo solleverà più la questione nel seguito del colloquio. Invece è accolta esplicitamente la richiesta di usare misericordia e perdonare tutti gli empi (migliaia?) per amore di cinquanta (eventuali) giusti. Il tema della misericordia, a volte confuso con quello della grazia, si potrebbe approfondire. In effetti, “usare misericordia” significa non punire in modo proporzionale alla colpa. (Vedere al riguardo Ed 9:13, dove il sacerdote ebreo tornato a Gerusalemme dall’esilio afferma che “Tu, nostro Dio, ci hai puniti meno severamente di quanto le nostre colpe avrebbero meritato...”). Ma nel passo che stiamo esaminando, la misericordia è al livello massimo, perché addirittura non verrebbe comminata alcuna punizione. E questo per amore dei giusti. Si spalanca qui un altro tema: quanto i veri Cristiani possano risultare in benedizione per le popolazioni in mezzo alle quali si trovano a vivere. Al riguardo mi è capitato di leggere affermazioni di vario genere, riferite a guerre o calamità naturali anche recenti, dove il Signore avrebbe risparmiato interi paesi per via dei credenti che vi abitavano.
Non voglio commentare simili opinioni, però vorrei rilevare che Abramo stesso e la nazione che da lui sarebbe sorta avrebbero dovuto essere in benedizione “per tutte le famiglie della terra” (Ge 12: 3b).
vv 27-32
Le richieste di Abramo al Signore si susseguono in crescendo per ben sei volte. A parte il dialogo in sé, che contiene preziosismi letterari di rara finezza, quello che si rileva subito è che il Signore risponde positivamente tutte le volte, cedendo alle pretese sempre più esigenti del suo amicoimplorante. I giusti “necessari e sufficienti” per evitare la distruzione di Sodoma passano da 50 a 45, poi a 40, 30, 20 e infine si riducono a 10. La graduale riduzione del numero dei giusti riflette probabilmente i dubbi di Abramo sull’influenza di Lot in Sodoma; ma egli la sopravvaluta fermandosi a dieci. In realtà la testimonianza di Lot era stata così inefficace che solo quattro persone, fra i suoi parenti più stretti, scamperanno alla distruzione.
Argomenti di riflessione
Ho pensato a questi due temi: il mutamento di atteggiamento da parte di Dio; e la risposta di Dio ad una preghiera pressante e insistita. Tuttavia ho trovato vari commentatori preoccupati dal fatto “che si possa pensare di indurre Dio a fare qualcosa contro la sua volontà”. Uno dichiara che “pregare non è un modo per forzare la mano a Dio a darci quello che desideriamo, ma è un modo per scoprire ciò che Egli desidera”. Un altro afferma perentoriamente “che il tema che predomina in tutto il brano è quello della giustizia”.
Il tema della giustizia è vastissimo, e tocca argomenti come il peccato, il giudizio, l’equità, la misericordia, la grazia, l’amore. Però ci sono dei punti terribilmente delicati: come spiegare per esempio la sofferenza degli innocenti (per malattie, o calamità naturali); come spiegare anche la (presunta) indifferenza di Dio di fronte alla dilagante ingiustizia?
Se ci mettiamo a parlare della Giustizia di Dio ci sembra di toccare un vespaio. Oppure ci sembra di vivere l’esperienza di quei vulcanologi che percorrono l’orlo di un cratere pieno di lava ribollente a oltre 1000 gradi e desiderano scendere per procurarsi qualche campione. Ricordo poi anche la disperata conclusione di Primo Levi (tratta da “La Tregua”): “Non può esistere Dio se c’è stato Auschwitz”. Teniamo presente che Abramo aveva dichiarato con forza, rivolgendosi a Dio: “Non sia mai che tu faccia una cosa simile!”. Come avrebbe reagito il patriarca di fronte all’Olocausto? O alla morte dei bambini della scuola di San Giuliano di Puglia?
A questo punto ci possiamo chiedere perché coloro che Dio considera suoi figli (i “giusti”) si trovano spesso a dover attraversare momenti di grave difficoltà, come tutti gli altri uomini. L’afflizione in effetti, oltre ad essere talvolta una punizione (vedi le varie angherie subite da Israele per la sua infedeltà), o una prova della fede (vedi il caso di Giobbe, e nel N.T. cfr. Gm 1:3; 1 P 1: 6,7), è soprattutto una condizione esistenziale . In Gb 5:7 viene detto che “l’uomo nasce per soffrire, come la favilla per volare in alto”. Alcuni passi del Nuovo Testamento esprimono il concetto che siamo destinati alle tribolazioni (1 Te 3:3; 1 P 4:12). Paolo parla poi della intera creazione che soffre (Ro 8:22,23). Il tema è stato trattato a fondo da V. Subilia nell’interessante libretto Il problema del male.
Di fronte alle “sofferenze ingiuste” il credente, non trovando risposte soddisfacenti, grida a Dio. “Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri...” (De 26:6,7). Nell’Antico Testamento troviamo molti casi di gridi, di lamenti, e di preghiere-lamenti. Addirittura, la lamentazione era diventato un genere musicale del quale i salmisti o i profeti dovevano tener conto scrivendo le loro composizioni. Questo è il caso del Cantico di Abacuc: “Preghiera del profeta Abacuc, sul tono delle lamentazioni: Signore, io ho udito il tuo messaggio... (Ac 3:1,2); ho udito, e le mie viscere fremono, io tremo ad ogni passo (16); ma Dio, il Signore, è la mia forza (19a). Al direttore del coro; per strumenti a corda (19b)”.
La preghiera nel momento dell’afflizione non si limita ad una richiesta fredda e melanconica di intervento divino. Il credente invece spande il suo cuore, racconta a Dio le proprie disgrazie, anche se sa benissimo che Dio già le conosce. Qualcuno pensa che Dio chieda all’uomo di stare zitto, generalizzando il passo che dice: “Sta’ in silenzio davanti al Signore, e aspettalo” (Sal 37:7). Questo atteggiamento ci porterebbe però a farci chiudere in un cupo mutismo, arrovellandoci così senza scampo nel nostro dolore. Dice Matteo 27:46, raccontando l’agonia di Gesù sulla croce: “Verso l’ora nona, Gesù gridò a gran voce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Come è noto, sono le parole del Salmo 22:1, che così prosegue: “Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito! Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi, e anche di notte, senza interruzione. Eppure tu sei il Santo... I nostri padri confidarono in te; confidarono e tu li liberasti. Gridarono a te e furono salvati, confidarono in te, e non furono delusi. Ma io sono un verme e non un uomo...” (1b-6a). Se riusciamo per un momento a distaccarci dall’interpretazione esclusivamente messianica di questo passo, potremo cogliervi l’immensa angoscia di un uomo sofferente, ridotto ad un verme, che chiede a Dio “perché”, e grida a Lui affinché venga liberato.
Sempre sul tema della sofferenza ingiusta (?), ricordiamo poi l’esperienza di Paolo (cfr 2 Co 12) che soffriva di un misterioso malanno, e per giunta un “diavolaccio” gli dava continuamente degli schiaffoni. Avendo chiesto a Dio per tre volte di essere liberato, ricevette la famosa risposta: “Ti basta la mia grazia”.
Ma il tema della giustizia è talmente vasto che merita di essere trattato in un apposito studio. Lo rimanderei così, piacendo al Signore, ad altra occasione. Affrontiamo pertanto i due temi a cui prima ho accennato.
- a)Il mutamento di atteggiamento da parte di Dio
Si resta indubbiamente sorpresi esaminando le sei risposte di Dio ad Abramo, via via sempre più accondiscendenti. Prendiamo in esame un altro passo della Scrittura, e precisamente 1 Sa cap 15, dove troviamo il racconto del “secondo peccato” di Saul e del “pentimento di Dio” per averlo fatto re d’Israele (vv. 11, 35). Ma in un altro versetto dello stesso capitolo si afferma che “Dio non è un uomo perché debba pentirsi” (29). Siamo qui di fronte a due verità “antitetiche” cioè difficilmente conciliabili per la nostra ragione. Ecco in breve gli insegnamenti che ne possiamo trarre:
1) L’affermazione che Dio non è un uomo perché debba pentirsi ci mostra la immutabilità di Dio nelle sue scelte fondamentali. Nel caso citato, Dio aveva “deciso” di dare un re ad Israele, ed in tal senso avrebbe comunque mantenuto la promessa. Dio mantiene le promesse che ha fatto perché è “fedele”. (“I doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili” Ro 11: 29). In questo ambito rientra la decisione di Dio di scegliersi un popolo sulla terra per farne il suo tesoro particolare, di allargare le dimensioni del suo popolo a tutti i credenti del Nuovo Patto; la promessa di far diventare tutti i credenti in Cristo “figli di Dio”; di sostenerli nel cammino su questa terra fino a condurli nella patria celeste, dove vivranno eternamente (cfr. Es 19:5; Ef 2:14; Gv 1:12; 1 Co 1:8,9; 2 Te 3:3; Eb 10:23; 2 Co 5:1).
2) “Dio si pentì di aver fatto...”: questo ci mostra l’assoluta libertà di Dio, ossia la possibilità da parte sua di mutare atteggiamento.
- a) Ilmutamento di Dioè connesso talvolta col dispiacere per il comportamento negativo dell’uomo:
- “Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo” (Ge 6:6);
- “Samuele faceva cordoglio per Saul; e il Signore si pentiva di aver fatto Saul re d’Israele” (1 Sa 15:35).
- b) Altre volte ilmutar d’atteggiamento di Dioo il pentimento di Dio avviene a seguito di una preghiera d’intercessione. E’ il caso che abbiamo allo studio, della preghiera di Abramo per Sodoma. Ma vediamo altri casi:
- “Allora Mosè supplicò il Signore, e disse: “Calma l’ardore della tua ira e pèntiti del male di cui minacci il tuo popolo...”. E il Signore si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo (Es 32:11-14).
- “Dio disse: “Io colpirò il popolo con la peste e lo distruggerò...”. E Mosè replicò: “Perdona, ti prego, l’iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà”. E il Signore disse: “Io perdono, come tu hai chiesto” (Nu 14:11-21).
- c) Il Signore può mutare atteggiamento perché è mosso dallacompassione:
- “I figli d’Israele fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono gli idoli di Baal... E l’ira del Signore si accese contro Israele ed Egli li diede in mano ai predoni che li spogliarono... e la loro tribolazione fu molto grande. Il Signore allora fece sorgere dei Giudici, che li liberavano dalle mani di quelli che li spogliavano...; poiché il Signore aveva compassione dei loro gemiti a causa di quelli che li opprimevano e angariavano” (Gc 2:11-18).
- “Essi si contaminarono con le loro opere... e l’ira del Signore si accese contro il suo popolo... e li diede nelle mani delle nazioni... e i loro nemici li oppressero... Tuttavia, volse a loro lo sguardo quando furono in angoscia, quando udì il loro grido; si ricordò del suo patto con loro e nella sua gran misericordia si pentì” (Salmo 106:39-45).
- d) Il mutamento di Dio può essere causato dallaconversionedel peccatore:
- “Dice il Signore: “Se la nazione che avevo deciso di distruggere... si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di farle” (Gr 18:7,8).(Questo passo è inserito nel contesto del “Vasaio che plasma l’argilla a suo piacimento”, figura dell’assoluta libertà di Dio).
Possiamo inoltre osservare che:
- nell’ottica della accettazione della immutabilità divina rientra l’espressione: “Signore, sia fatta la tua volontà!”;
- nell’ottica del mutamento rientra invece ogni preghiera, intercessione, richiesta di soccorso, fatta con fede: “Ogni cosa è possibile per chi crede” (Mr 9:23); “Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Eb 4:16).
Sembrerebbe a questo punto di poter concludere che, se sottolineiamo solo il fatto che la Volontà di Dio è quella che è, che sarà comunque fatta, e che Dio sa tutto perché ha deciso ogni cosa in anticipo, allora che cosa preghiamo a fare? Con quest’ottica, Abramo avrebbe dovuto pregare così: “Signore, se hai deciso di distruggere Sodoma, avrai certamente delle ottime ragioni. A me dispiace molto, soprattutto per quei cinquanta, o trenta, o dieci giusti che vi si potrebbero trovare, poveretti... Ma tant’è, sei Tu il Giudice, l’Onnipotente e l’Onnisciente, chi potrà mai sindacare i tuoi giudizi? Fai Tu che sai ogni cosa, sia fatta la Tua volontà. In fondo, io non sono che polvere e cenere...”.
Ma, grazie a Dio, Abramo, definito il padre di tutti i credenti (Ga 3:7,29), ha pregato in modo assai diverso.
- b)La risposta di Dio ad una preghiera pressante e insistita
Indubbiamente, la preghiera di Abramo era di questo tipo. Nel Discorso della Montagna (secondo Mt 6:7,8), Gesù, prima di insegnare il “Padre Nostro” ai discepoli, li ammonisce dicendo: “Nel pregare non usate troppe parole come fanno i pagani, i quali pensano di essere esauditi per il gran numero delle loro parole. Non fate dunque come loro, poiché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate”. Per altro (secondo Lu 18: 1-8), per insegnare ai discepoli che “dovevano pregare sempre e non stancarsi”, Gesù propone loro la “parabola della vedova e del giudice”, dove la donna è talmente opprimente che il giudice finalmente è costretto a darle ascolto. E Gesù conclude: “Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a Lui?”. Poi, nelle istruzioni sulla preghiera riportate in Lu 11:1-13, Gesù racconta la “parabola dell’amico importuno” che chiede dei pani in piena notte ad un altro, e spiega: “Quello che viene disturbato di notte, anche se non si alzasse a dare i pani perché chi glieli chiede è suo amico, tuttavia, per la sua importunità, si alzerà e gli darà tutti i pani che gli occorrono”. E Gesù aggiunge: “Chiedete con perseveranza, e vi sarà dato; cercate senza stancarvi, e troverete; bussate ripetutamente, e vi sarà aperto”.
Ed ecco un’altra citazione, tratta da Is 62: 6,7. L’argomento è il ristabilimento di Gerusalemme, che il Signore dovrà portare a compimento. Sulle mura della città si danno il cambio delle sentinelle che giorno e notte sono invitate a gridare le loro invocazioni di soccorso, senza concedersi riposo. “Ma - dice il profeta - soprattutto non date riposo a Dio, finché Egli non abbia ristabilito Gerusalemme”.
Sembrerebbe dunque che la preghiera insistente non solo non è sconsigliata, ma anzi è oltremodo opportuna. E non ci si deve fare alcuno scrupolo di annoiare Dio, né giustificarsi dicendo: “Tanto Lui lo sa già”. Vorrei sottolineare due delle espressioni precedenti: “Chiedete con perseveranza senza stancarvi, e troverete”, e “Non date riposo a Dio, finché...”.
In conclusione poi, sempre sull’argomento della risposta alle preghiere, è utile rilevare che un Cristiano oggi, quando chiede qualcosa a Dio, è più avvantaggiato rispetto ai grandi personaggi dell’Antico Testamento. In effetti Abramo, l’Amico di Dio (Gm 2:23), Mosè, con cui il Signore trattava faccia a faccia (De 34:10), Davide, l’uomo secondo il cuore di Dio (1 Sa 13:14.), per ottenere qualcosa dal Signore facevano di solito appello alla sua fedeltà al “patto”, alla sua giustizia, alla sua misericordia e alla sua benignità. Ma un Cristiano oggi ha in più la possibilità di considerare il Signore Onnipotente come suo Padre, e di dirgli: “Padre, guarda che queste cose te le sto chiedendo “nel Nome di Gesù”, che ha promesso ai Suoi: “In verità, in verità vi dico che qualsiasi cosa domanderete al Padre nel Mio Nome, Egli ve la darà” (Gv 16:23b).
Quando uno si trova in mezzo ai guai e nessuno gli presta aiuto, nel linguaggio popolare si usa dire: “Quel poveretto non ha proprio santi in Paradiso!”. Ma i Cristiani hanno ben più che qualche “santo” in Paradiso, perché, secondo il Nuovo Testamento, essi hanno addirittura Gesù Cristo, che oltre ad appoggiare le loro richieste - come abbiamo appena detto - parla al Padre in loro favore, cioè “intercede” per loro (Ro 8:34), e all’occorrenza ne prende anche le difese, come se fosse il loro “Avvocato” (1 Gv 2:1b).
Davide Valente